giovedì 16 luglio 2015

Pantani, quel viso triste come una salita

Coppi e Bartali, Bartali e Coppi:  per mio papà la storia del ciclismo prima o poi torna sempre a loro due. Un ciclismo “eroico” per definizione, “epico”, dove le gesta sportive erano spesso fuga dalla miseria, storie di uomini e non solo di tifo, dai ricordi rigorosamente in bianconero.
Per me invece i primi ricordi ciclistici sono a colori: quelli delle biglie da spiaggia con il volto dei ciclisti. I loro nomi erano sempre un po’ retrò:  Merckx, Gimondi, De Vlaeminck o Van Impe con la maglia a pois rossi. La mia preferita. Poi un giorno, la mia pigrizia cullata dai racconti e dalla televisione è stata travolta dalle imprese di un mio coetaneo. Classe 1970. Era il 1994, e si chiamava MARCO PANTANI. C'era il Giro d'Italia e quel romagnolo piccolo ed esile divenne “il pirata”. Quell’anno arrivò secondo. Poi le cadute rovinose, le vittorie, come all’Alpe d’Huez, i nuovi infortuni e le risalite. Sino ai trionfi al Giro e al Tour de France nel 98. Come è andata a finire – poi – lo sapete. Il doping, la depressione, la solitudine, la morte.

Avete presente una gara ciclistica? Per i non appassionati può apparire noiosa. Perché  il ciclismo è lo sport dell’attesa. L’attesa del passaggio del gruppo nei paesi lungo il percorso. L’attesa dello sprint finale, l’attesa dello scatto risolutivo. Un attimo fugace, questione di pochi secondi. Un'attesa, come cantava Paolo Conte, riempita da un “silenzio che descriverti non saprei”. Verrebbe voglia di scomodare Leopardi e il sabato del villaggio...
Pantani – ciclisticamente parlando – ha rappresentato uno che sembrava rispondere a quest’attesa. Lo si guardava alla tivù e lo si aspettava. Più ancora delle vittorie ancor oggi ricordo l’attesa delle vittorie, il momento dell’attacco. Di quando partiva dalla coda del gruppo; si alzava sui pedali  e lasciava tutti sul posto. Leggero come una farfalla, nonostante la pesantezza nell’animo. Con la cattiveria agonistica del pirata e lo sguardo dolente,  “triste come una salita” per ricitare Paolo Conte. Perché vai così forte in salita?, gli chiese un giornalista. “Per abbreviare la mia agonia”, rispose. Come per confessare che i trionfi non bastavano. Un colpo al cuore pensando quel che è accaduto poi.
Con Pantani il ciclismo, lo sport fatto di storie eroiche e un po’ leggendarie raccontato dai padri e dai nonni,  è diventato a colori per una generazione forse non più abituata ad affrontare le salite. A parlare di sport e sacrificio, di imprese ma anche di solitudine. E anche di scorciatoie e illusioni come il doping. Con Pantani pensavamo di aver riscoperto l’epica, invece siamo stati messi di fronte a una tragedia. E le indagini e le polemiche sulle cause della sua morte non han fatto altro che rendere più denso il mistero su quel si cela nel cuore dell’uomo.
Ancor oggi, lungo l’autostrada verso Rimini, si vede  - sulla destra - un’enorme biglia da spiaggia con Pantani in maglia rosa. Una scultura voluta dal suo sponsor di allora. Una biglia colorata come quelle con cui si giocava una volta sulla sabbia. Il ricordo di un campione amato, ma pure un richiamo all’infanzia e a quel sentimento di libertà che si è provato da bambini la prima volta che si ha inforcato una bicicletta.




(Preparato per la serata sportiva #Pontresina2015)

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