giovedì 7 novembre 2013

Il kid di Las Vegas è diventato grande



Prima campione, poi autore di successo, infine "marchio" e motivatore degli uomini d'affari. La sua forza? "Ho smesso di voler essere perfetto"

di Giuseppe De Bellis

Andre Agassi parla al contrario di come giocava. Piano. Sottile la voce, precise le parole. Se parla di tennis non sta parlando solo di tennis. È finito il match ed è cominciata la vita: si veste di nero, minimalista. Ha tolto tutti i colori, tutti gli accessori: gli orecchini, la barba, quel che restava dei capelli. Ora è un Amleto calvo, ha scritto qualcuno: sopravvissuto ai dubbi, ai tormenti e al suo regno. «Non si è ucciso, anzi si è ritrovato, con parole che lasciano il segno».

Ha scavalcato il suo sport, la sua carriera, il successo, la fama, i soldi. Ha superato pure la autobiografia che ha raccontato chi è davvero. È altro. Uno Steve Jobs che invece di cominciare coi computer ha cominciato con un Drago che gli sparava «2500 palline al giorno, cioè 17500 a settimana, cioè un milione all'anno». È passato oltre: uno in grado di ispirare. Un guru. Un intellettuale della vita. Uno che racconta la sua storia per spiegare come farcela. L'ha fatto ad Harvard, qualche mese fa; lo fa oggi a Milano, al World Business forum: un posto per ascoltarlo costa dai duemila euro in su. Manager, imprenditori, professionisti pagano per quella voce e per quelle parole. Racconta ciò che ha imparato, ciò che l'ha cambiato. Si può vincere anche contro se stessi: «Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare. Per quanto voglia fermarmi non ci riesco. Continuo a implorarmi di smettere e continuo a giocare, e questo divario, questo conflitto, tra ciò che voglio e ciò che effettivamente faccio mi appare l'essenza della vita». Sta tutto qui il passaggio tra ieri e oggi, tra il giocatore e il motivatore, tra lo spettro di diventare un reduce come molti altri e la capacità di evolversi in qualcosa di diverso. Open ha modificato la percezione che il pubblico planetario aveva di Agassi: il ragazzino viziato e precoce e strafottente diventato un uomo capace di gestirsi, di affrontare pubblicamente il rapporto con un padre ossessivo, di svelare la necessità di provare la droga e la disumanità di affrontare il divorzio da Brooke Shields via fax. «Non è un libro sul tennis», dice ora. Lo ripete a se stesso e agli altri. Trecentomila copie vendute solo in Italia, un caso letterario strano, cominciato tardi e proseguito come un'onda che non trova scogli: il libro è uscito quasi tre anni fa ed è ancora in classifica. L'ha detto: «Voi mi avete capito, siete ricettivi. Ho sempre avuto questa sensazione, anche quando giocavo, voi sentivate che ce la mettevo tutta, che cercavo una quadratura, di mettere i pezzi insieme, anche nella vita. Ci mettevo passione, voglia, allenamento, pure nei miei sbagli. Ero disturbato, ma voi sembravate non farci caso. Davo l'idea di un bullo arrogante, ero solo pieno di ansie. C'è gente che dentro il campo rinasce, diventa leone, si sente finalmente bene, io invece stavo male da cani. Bastava un ritardo per la pioggia e già cadevo in confusione, mi venivano i dubbi, le incertezze. È stato brutto vivere così, anzi patire. L'autobiografia l'ho voluta, mi sono dilaniato, sbranato, sono andato a fondo, ho scelto J. R. Moehringer, per scriverla, non perché è un premio Pulitzer, ma perché mi era piaciuto Il bar delle grandi speranze. Avevo più da perdere che non da guadagnare». È nelle mani di chi non ha mai impugnato una racchetta, lo vedi. È quel pubblico che l'ha trasformato in santone laico. Dentro la gente ci ha trovato onestà e ispirazione. È la parola che ripete più spesso il suo manager Steve Miller: «Inspiration». È la chiave che apre la porta: chi lo va ad ascoltare oggi cerca quello. Nessuno ricorda come giocasse, a nessuno importa che il tennis di oggi sia figlio dei suoi piedi piantati dentro il campo. Oltre, appunto. Di più. Ciò che allontana un uomo dal suo passato senza dovere a tutti i costi accartocciarlo.

Agassi oggi è un brand. Il marchio del successo. Trascendendo la condizione di sportivo ha messo dietro quelli che sono rimasti appesi ai loro ricordi, quelli che vivono nella nostalgia. Sampras è stato più forte di lui. McEnroe pure. Però sono tennisti, punto. Agassi no. Rimasto agganciato dall'esterno, il resto è altro: una fondazione e una holding che mescolano la charity con il business, la bontà con gli affari. Agassi e la moglie Steffi Graf aiutano le scuole di mezz'America con i soldi delle loro donazioni. Gli altri, molti, li investono: Andre ha appena comprato un'azienda che produce snack per ragazzini. Li vuol aiutare a mangiare meglio, dice con un'operazione di crossmarketing che unisce il benefattore all'imprenditore. Gli sponsor credono in lui: Longines soprattutto che da una vita lo segue, lo coccola, lo ama. Nike, adesso, di nuovo. Dopo otto anni di pausa, l'azienda che costruì il personaggio Agassi, l'ha ripreso, l'ha rivoluto, l'ha pregato: «Torna». È quello che gli ha chiesto anche il mondo del tennis. Perché non rientra? Ci sarebbe bisogno di lei? «Non fa per me». Lo guarda, il tennis. Ma non l'odiava?, gli chiedi. Lui: «Non era e non è amore-odio. È odio-amore, odi et amo». Lo dice in latino, usando Catullo e lasciando in sospeso il resto della citazione. Vola in quell'Europa che ha smesso di odiare perché non gli costa più la fatica di dover combattere con la schiena che l'ammazzava dal dolore appena finiva l'effetto delle medicine. Viene in Italia. L'hanno invitato pur sapendo che è timido come pochi. Al Business Forum non farà un discorso, risponderà a domande. Non c'è bisogno di parole particolari per trasmettere ciò che hai dentro. È il ritmo, come nel tennis: «Non è uno sport di tecnica e di forza. È il ritmo che fa la differenza». La voce non alza il volume, cambia solo la frequenza. Dice che è giusto così. È quello che ha imparato e che trasferisce. Perché lui è il Brad Gilbert degli altri: di chi teme di non potercela fare a portare avanti un'azienda, di chi ha paura di sbagliare con il mercato, di chi si sente inadeguato. Sapete che dice? «Io sono cambiato quando ho smesso di voler essere perfetto. Ho deciso di essere perfezionista del non essere perfezionista». È stato Gilbert e il suo «gioca sporco». È ciò che ripete su ogni palco dal quale parla, in ogni convention a cui viene invitato. Il tennis è un pretesto, ecco perché funziona. Ecco lo Steve Jobs di un altrove. Il campo è banalmente una metafora. Il business è uguale, il mercato pure, le relazioni con gli altri, siano colleghi o familiari, idem. È uno scambio in cui lui ha capito come diventare più forte: «Semplicemente sapevo dove andava la pallina anche quando sbagliavo, a differenza di tutti quelli che lo sapevano solo quando facevano il colpo giusto. Questo mi ha migliorato». Si è osservato e si è visto. Si osserva e si vede ancora.

Qualche tempo fa, gli hanno fatto il questionario di Proust: Qual è il tuo attuale stato d'animo? «Contenuto, ma in attesa». Qual è la persona vivente che più ammiri? «Mia moglie». Qual è la tua più grande paura? «Lasciare le persone che amo». Che cosa deplori di più in te stesso? «A volte sono stato accecato dalla lealtà». Che cosa deplori di più negli altri? «La slealtà». Che talento vorresti avere? «Quello di Roger Federer». Se potessi cambiare una cosa di te, che cosa sarebbe? «Essere meno instabile e ossessionato da domande come questa». Che cosa consideri come la miseria più bassa? «Svegliarsi un giorno e non essere in grado di distinguere i buoni dai cattivi nella mia vita». Qual è la tua occupazione preferita? «Non l'ho ancora trovata». Qual è il tuo motto? «Mai portare un coltello per uno scontro a fuoco». Come vorresti morire? «All'alba del 22° secolo, facendo qualcosa che odio».

Questa cosa non è il tennis. Perché manca il resto. Manca Catullo e ciò che ne discende. «Odio e amo. Per quale motivo io lo faccia, forse ti chiederai. Non lo so, ma sento che accade, e mi tormento». Ventidue parole per spiegare tutto e tutti, perché ognuno di noi ha un drago che ti fa odiare ciò che fai e ciò che in fondo ami. È la condivisione dell'esperienza che ha reso Agassi diverso dagli altri grandi: non piaceva a un sacco di gente, piace. Ascoltandolo si capisce perché.

(pubblicato su Il Giornale del 7 novembre 2013)

martedì 5 novembre 2013

Dov'è finito Joe Di Maggio? E Dustin Pedroia?



Chi gioca in prima base?, ripeteva ossessivamente Dustin Hoffman in Rainman. A noi interessa chi gioca in seconda. Ed è un altro Dustin. E’ Dustin Luis Pedroia, trent’anni, seconda base dei Boston Red Sox, la squadra campione del mondo di baseball che ha appena conquistato la sua terza World Series degli ultimi dieci anni. Per Pedroia è il secondo titolo dopo quello del 2007.

Ok, d’accordo non stiamo parlando di Joe Di Maggio e per noi il baseball è meno affascinante e più complicato del curling, ma per ogni ragazzo americano è uno dei tre fiori all’occhiello della cultura yankee. Gli altri due sono la Costituzione e il jazz. Il nostro Dustin lo chiamano The Laser Show: è stato matricola dell’anno al suo debutto professionistico nel 2007, miglior giocatore, “MVP” l’anno successivo e in bacheca vanta diversi riconoscimenti – dal Silver Slugger al Gold Glove Award. Abbastanza da lasciar scrivere a chi più se ne intende di inning e di Major League, che Pedroia è destinato a lasciare il segno in questo sport.
 
Il baseball è un grande serbatoio della memoria americana. A un fuoricampo e alla traiettoria di una pallina da baseball sono appesi sogni e destini. Il sogno di Pedroia è quello di uno che ce l’ha fatta, perché per i Pedroia da Brione sopra Minusio l’America era la terra promessa. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, dal locarnese, gli avi di Dustin partirono dal Ticino ed emigrarono nel Nuovo Mondo. Non dalla Valle Maggia come si era sempre pensato, bensì dal Locarnese. L’ultimo Pedroia da Brione sbarcò a Ellis Island nel 1911. Incitati dall’appassionato collega Pier Baroni e partendonel sito OltreConfiniTI scopriamo che sono tre i Pedroia partiti per San Francisco.

La seconda base dei Red Sox è nato e cresciuto a Woodland, a un’ora e mezza da Sacramento,  in California, ma a differenza dei suoi avi ha trovato il successo sulla costa est, a Boston. Se il padre è d’origine ticinese, la mamma ha sangue portoghese. A Brione non risulta che Pedroia sia mai tornato nel paese dei suoi antenati. Chissà se è cosciente del fatto che nelle sue vene scorra un po’ di sangue ticinese. Non senza qualche concessione alla retorica, in Sunset Park Paul Auster scrive che “il baseball è un universo grande come la vita stessa e perciò nel suo ambito ricadono tutte le cose della vita, buone o cattive, tragiche o comiche”. Anche le radici dimenticate di Pedroia. Anche i campioni sconosciuti ai discendenti ticinesi.

(Pubblicato sul RSI.ch il 6 novembre 2013)

giovedì 31 ottobre 2013

L'Atletico non è una minaccia, ma una speranza


“Io sarei nato per il calcio e sarei morto per il calcio. A centrocampo, sarei voluto morire a centrocampo. O meglio ancora sulla trequarti avversaria. Non c’è posto più bello della trequarti avversaria. E’ una conquista, un’invasione. Una scoperta…” (p. 11)

E una scoperta è il libro di Marco Marsullo Atletico Minaccia Football Club in cui si racconta la passione per il pallone vissuta da Giovanni Cascione aspirante José Mourinho. Nell'unico modo possibile: seriamente e con ironia.

 



“La prima regola del calcio secondo Cascione è: la squadra gira se gira l’allenatore, i calciatori sono solo pedine di un gioco più grande di loro.”
“La seconda regola del calcio secondo Cascione è: non esistono partite amichevoli, solo partite da vincere. Il fair play è un’invenzione dei Testimoni di Geova.”

“La terza regola del calcio secondo Cascione è: non conta quanti gol prendi in una giornata storta, ma quanti altri potevi prenderne se la partita non fosse finita.”
“La quarta regola del calcio secondo Cascione è: le donne dicono che un diamante è per sempre, ma cosa volete che capiscono le donne? Infatti non sanno giocare a pallone. Una sola cosa dura per sempre: il calcio.”

“La quinta regola del calcio secondo Cascione è: la stagione più bella è sempre quella che verrà dopo. Nel calcio c’è spazio per la speranza. La parola fine, nel sistema ciclico delle stagioni, non esiste. Il calcio è l’unica maniera per essere immortali.”

“La sesta regola del calcio secondo Cascione è: il gol è un attimo. Dopo quell’attimo il gol cessa di esistere, esiste solo la partita. Che è l’unica cosa che nel calcio non dura un attimo ma novanta minuti. Più recupero.”
“La settima regola del calcio secondo Cascione è: nel calcio conta solo chi vince. Ma ogni tanto anche chi perde.”

lunedì 21 ottobre 2013

Il colpo segreto di Maradona

di Massimo Gramellini

Il Maradona che ho conosciuto alla fine degli anni Ottanta era più bravo a giocare che a vivere. O forse soltanto quando giocava sembrava vivere davvero. La storia che voglio raccontarvi parla proprio di uno di quei momenti e si è talmente impressa nella memoria che molti anni dopo finì per ispirarmi un Buongiorno e addirittura una pagina del mio primo romanzo, che con il calcio non c’entrava niente.
 




Era il mezzogiorno di un sabato, alla vigilia di qualche partita importante, e Maradona, tanto per cambiare, non si era presentato agli allenamenti per tutta la settimana. Il povero addetto stampa del Napoli aveva esaurito la scorta di bugie: la foratura della gomma, la visita medica, l’influenza contagiosa. Il giovedì, proprio quando veniva dato a letto con 40 di febbre, Maradò (come lo chiamavamo tutti) era stato beccato in discoteca nel cuore della notte con un bottiglia vuota di champagne in equilibrio precario sulla testa.

Ma il sabato mattina si presentò al campo di allenamento. Ovviamente in ritardo, e scortato dal consueto cespuglio di microfoni e taccuini. Uno dei taccuini lo tenevo in mano io, inviato di un giornale del nord e quindi già solo per questo sospettabile di pregiudizi negativi nei suoi confronti. In realtà quel genio del bene e del male mi stava simpatico come un fratello matto. Forse perché, nonostante fosse strafottente e distruttivo, in mezzo a tanti manichini sembrava quasi una persona.

Quel sabato, dunque, al termine dell’allenamento, Maradona non seguì i compagni negli spogliatoi, ma rimase sul campo per allestire uno spettacolo destinato ai giornalisti. Dribbling tra i birilli e palleggi. Era il suo modo di vendicarsi di noi. Scrivevamo ogni giorno che era finito, che non si reggeva in piedi? Ebbene, guardatemi, pareva dire. Guardatemi e tacete.

A un certo punto esagerò. Sistemò il pallone sulla linea di fondo campo. Ma non all’altezza della bandierina del calcio d’angolo: da lì sono buoni tutti (insomma, alcuni…). Lui la mise molto più vicino alla porta: nel punto in cui la linea di fondo interseca l’area piccola del portiere.

Da lì la porta non riesci a vederla neanche se sei strabico. Puoi vedere solo la parte esterna del palo, ma è talmente vicina che ti sembra un muro: fare gol da quella posizione non è difficile. È impossibile. Bisognerebbe violare una ventina di leggi fisiche. Colpire il pallone con un tiro che a metà del suo breve tragitto si pieghi verso l’esterno per evitare il palo e poi, ma immediatamente, compia una conversione di novanta per infilarsi in porta.

Maradona calciò il pallone e lo infilò in porta. Non una, ma cinque volte. Perché si capisse che la prima non era stato un caso.

Io lo guardavo a bocca aperta, e non ero il solo. Seduto a bordo campo, in adorazione, c’era un ragazzo delle squadre giovanili del Napoli. Era stato lui a passare a Maradona i cinque palloni che, uno dopo l’altro, quel satanasso aveva messo sulla linea di fondo campo e da lì in rete.

Pensando di non averci ancora umiliato abbastanza, Maradona scavalcò la rete di recinzione che lo separava dai giornalisti e ci raggiunse. Appena si accorse che dalla tasca di un mio collega spuntava un mandarino, glielo chiese in prestito. Se lo appiccicò al piede sinistro e cominciò a palleggiare per cinque, dieci, venti minuti: tutto il tempo dell’intervista. Rispondeva alle domande e intanto il mandarino andava su e giù, come se fosse attaccato a un cordino invisibile.

A un certo punto sentimmo dei latrati provenire dal campo. Era il ragazzo delle squadre giovanili che da venti minuti stava provando a imitare il famoso tiro dalla linea di fondo. Ma i suoi tentativi morivano tutti regolarmente contro il palo: questo spiegava i latrati di disperazione.

Fu allora che Maradona, con un ultimo colpo di tacco, parcheggiò in terra il mandarino e tornò in campo. Si avvicinò al ragazzo e gli disse: Non ti preoccupare, alla tua età non ci riuscivo nemmeno io. Adesso ti insegno”. Il più famoso calciatore del mondo si inginocchiò davanti al ragazzo, gli afferrò un piede e lo accostò al pallone in un certo modo: “Ecco, devi colpire proprio qui.”

Poi, come se niente fosse, tornò in mezzo a noi, risuscitò il mandarino e ricominciò a parlare e a palleggiare. Ma non a lungo, perché fummo interrotti da un urlo: Goool.

Alla fine il ragazzino ce l’aveva fatta. Era stato davvero bravo e tenace: il talento, se non si appoggia al carattere, conta meno di zero.

Quel ragazzino si chiamava Gianfranco Zola e un giorno anche lui avrebbe insegnato a un altro ragazzino il colpo segreto di Maradona.

Questa settimana intrisa di rabbia e rassegnazione meritava un congedo all’insegna della speranza. Una storia capace di ricordarci che andrà tutto bene, alla fine e, se non andasse tutto bene, vuol dire che non è ancora la fine.

Buonanotte.

 

P.S. Mi si fa giustamente notare che all’epoca di questo episodio Zola non faceva parte delle giovanili, ma era una giovane riserva della prima squadra. Mi ha ingannato il ricordo di averlo visto giocare per la prima volta nella Primavera del Napoli come fuoriquota (aveva 23 anni). Ma non credo che questo lieve scarto temporale (23 anni anziché 18-20) procuratomi dalla memoria modifichi la veridicità e il senso della storia che si svolse sotto i miei occhi.

(il testo della ’Buonanotte’ data domenica 20 ottobre 2013 da Massimo Gramellini ai telespettatori di “Che tempo che fa” su RaiTre)

giovedì 26 settembre 2013

Tutti in coda sognando l'impresa

C’era una volta il progetto Copernico, oggi c’è il cumenda brianzolo. Sono passati solo 10 anni, ma se un tempo il Ticino andava a caccia di aziende straniere oggi è diventato terra di conquista, il nuovo Eldorado.
Come pare lontana l’epoca in cui quello che allora si chiamava il promovimento economico cantonale varava un’aggressiva politica di marketing territoriale per favorire nuovi insediamenti. In pochi anni, dal 1999 al 2003, la Sonnestube svelò un inaspettato appeal riuscendo ad attrarre 3056 aziende e facendo fiorire i fondovalle di capannoni tanto anonimi quanto ambiti. Molti metri quadrati, pochi posti di lavoro. “E’ la logistica, bellezza, non puoi farci niente!”, si rassicurava, garantendo il “valore aggiunto”. Un valore soprattutto fiscale perché oltre alle imposte alla fonte a fare gola a Comuni e Cantone erano quelle sull’utile e sul capitale.

Il teatro dei sogni
Quei tempi sono finiti. Sino a qualche anno fa si parlava di promozione, oggi di invasione. Complice la congiuntura, complice il numero di lavoratori frontalieri. E così con timore e sospetto osserviamo la coda dei sedicenti imprenditori muniti di partita IVA all’entrata del Teatro Sociale di Chiasso. In scena, c’è “Benvenuta impresa!”, iniziativa del Comune per presentare le potenzialità della cittadina di confine. S’erano fatti avanti in novecento, ma solo poco più di duecento hanno trovato posto. Sognano la delocalizzazione, cercano spazio in cui lavorare. A loro la Svizzera può offrire più flessibilità, meno burocrazia e un fisco più leggero.

In gita a Chiasso
Se un tempo la domenica si andava in gita a Chiasso, quelle odierne paiono prove di esodo, una vera e propria fuga dall’Italia. Una fuga che se da un lato lusinga il sindaco Moreno Colombo, dall’altro preoccupa sia il Presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni sia il Dipartimento Finanze Economia del Cantone. C’è una fuga di imprese e di cervelli da arginare, c’è un’azione politica economica da coordinare.  A Bellinzona nessuno lo ammette esplicitamente, ma l’iniziativa chiassese un po’ di malcontento e disagio lo sta creando. Se dal Pirellone viene vista come una fuga dall’Italia. Da Palazzo delle Orsoline viene vista come una fuga in avanti. Un’iniziativa isolata per promuovere il sogno elvetico che potrebbe trasformarsi in boomerang: sembra ieri quando Chiasso promuoveva insediamenti hi tech e si è vista invadere da call center. Ad alto valore aggiunto, naturalmente.

domenica 22 settembre 2013

Non potevo farlo anch'io














 




Incuriosisce e attrae, interroga e magari diverte. Ma cosa ci dice? Nell'era fast food, l'arte contemporanea stuzzica ma non sfama. Non la capiamo e allora via. Le speculazioni finanziarie e le mode che accompagnano artisti e opere alla fine ci lasciano scettici, incapaci di capire l'effetto che fa...
Al Meno Uno, con @robedachiodi, per #Turné del 21 settembre 2013 (dopo 6' ca.)

Di fronte a una tela di Lucio Fontana con Giuseppe Frangi
 



















dopo questa notizia:

Opera di Luciano Fabro in frantumi
Incidente in occasione di un vernissage della Collezione Giancarlo e Danna Olgiati a Lugano

Se non fosse per il valore insostituibile dell'opera, si potrebbe immaginare a una scena di Mister Bean. Invece, non è un film comico quello visto ieri a sera al Meno Uno, il prestigioso spazio espositivo vicino al futuro LAC. In occasione del vernissage delle 30 nuove opere della Collezione Giancarlo e Danna Olgiati che integrano quelle esposte dall'estate 2012 è avvenuto un clamoroso incidente.

Uno sventurato ospite della vernice, tra un canapè e un discorso, ha sciaguratamente fatto cadere un'opera di Luciano Fabro che è caduta in frantumi. Si tratta, o meglio, si trattava della famosa "Impronta" datata 1962-1964. I vetri del disco trasparente con al centro un'impronta sono andati in mille pezzi, quasi polverizzati, tra lo sconcerto dei presenti e l'infinito imbarazzo del goffo malcapitato. E non è una consolazione, il fatto che all’inaugurazione fosse presente l’assicuratore della collezione.

Luciano Fabro è considerato uno dei massimi esponenti dell'avanguardia italiana del XX secolo ed in particolare dell'Arte povera. Artista concettuale e scultore era nato a Torino nel 1936 ed è morto a Milano del 2007. Anche per questa ragione, secondo la curatrice del Museo cantonale d’arte che gestisce tutti gli spazi espositivi, il valore dell'opera è inestimabile, per il vuoto che inesorabilmente lascia l'incidente accaduto ieri sera.

(notizia pubblicata su RSI.ch l’8 settembre 2013)



mercoledì 12 giugno 2013

Il dramma di Chiasso, i dubbi del cronista e il bonzo di Jannacci


 
I suoni e le luci del luna park, il buio e il silenzio dentro. Le vampe improvvise e lo sguardo incredulo di chi passa di là. Solo a leggerla e a provare a immaginarla, la scena mette i brividi. Un uomo sulla sessantina s’è dato fuoco in pubblico. Non qui, dai, da noi non può succedere. Invece accade a Chiasso. E pochi giorni fa era accaduto a Solduno. Le fiamme come estremo tentativo di spegnere un male che pudicamente chiamiamo disagio. Un disagio che oggi – un po’ per sfatare il tabù del suicidio – giornalisticamente ha dato vita a un genere, “le vittime della crisi”, per tentare di trasformare in parole quel che ci lascia attoniti e disorientati. Alcol, solitudine e disperazione, ci spiega oggi chi sapeva ma non immaginava. La congiuntura, l’incertezza e l’instabilità, azzardiamo noi cronisti per raccontare storie che fino a ieri non diventavano notizie. Ma poi, una volta conosciute età, occupazione, origine e abitudini del protagonista, ci si arresta sull’uscio di un mistero apparentemente invalicabile. Quando la vita bussa così, ti accorgi che non basta la radiografia sociale per capire il perché di un gesto, che lavoro, amore e politica non possono rispondere ai problemi della tua esistenza. La scelta di togliersi la vita attiene a una zona insondabile del cuore umano che ha a che fare con la fragilità, il dolore, la paura. Mondi troppo profondi per farne oggetto di sociologia spicciola o affrettate analisi giornalistiche.

Cifre alla mano le statistiche di polizia ci dicono che in Ticino non siamo di fronte a una recrudescenza dei casi di suicidio. I picchi sono stati raggiunti una quindicina d’anni fa con un’allarmante media di più di un suicidio a settimana. Lo scorso anno, le persone che si tolsero la vita furono 42, quest’anno sono, sinora, 19. Nude cifre, che non permettono di cogliere il dramma di chi non ce la fa più a vivere. E allora basta una fiammata del cuore, una sera di inizio giugno, per turbarci e obbligarci a interrogarci sul perché di un gesto. Non possiamo speculare sul dolore, ma a partire da quel dolore tutti possiamo ritrovare il nostro posto, giornalisti e no. Perché interrogarsi sul perché darsi la morte, implica il chiedersi le ragioni del vivere. E così concludere come Jannacci nella sua canzone Il bonzo, “Des' m’interessa anche a me / della mia libertà / la libertà de brusà / de brusà per pudè campà”.
Pubblicato su RSI.ch  l'11 giugno 2013
 

mercoledì 23 gennaio 2013

"Addio Lugano bella". Così svaniscono i sogni socialisti...


A margine della rinuncia di Patrizia Pesenti


Contrordine compagni! Il sogno socialista di raddoppiare la presenza nell'Esecutivo cittadino nello spazio di un mese si è trasformato in un incubo. Perché dopo la rinuncia polemica di Nenad Stojanovic, quella altrettanto amara di Patrizia Pesenti ridimensiona drasticamente le ambizioni socialiste a Lugano e danno l'immagine di un partito che perde i pezzi e non ha chiara la rotta.
Sottraendosi al fuoco di fila delle interviste, entrambi gli ex candidati gettano la spugna per divergenze politiche e personali e creano stupore e imbarazzo tra i socialisti che li avevano scelti e votati. Un imbarazzato silenzio poiché sebbene con pensieri politici dichiaratamente diversi - socialdemocratica Pesenti, più massimalista Stojanovic - entrambi denunciano conflitti intestini e divisioni interne al limite dell'autolesionismo. Un harakiri mal gestito come dimostrano le polemiche per lo scrutinio del voto sulle candidature il cui risultato è stato tenuto inizialmente segreto.

"Non posso scendere in campo con una parte della squadra contro di me" ci ha detto l'ex Consigliera di Stato. Una dichiarazione che sa di resa. Una resa a chi da tempo, forse dimentico dei successi elettorali cantonali, chiedeva a Pesenti di "dire qualcosa di sinistra", a chi aveva mal digerito il ritorno sulla scena politica dell'ex ministra della sanità e socialità (tant'é che la sera della sua designazione fu solo la quinta votata), a chi già la sera dell'assemblea di Cadro - il 7 dicembre - aveva ascoltato perplesso la lettura divergente della realtà cittadina luganese di Pesenti e degli altri esponenti socialisti.

"A Lugano si sta bene, è a misura d'uomo, è bella, non lascia indietro nessuno... sono orgogliosa delle tante cose che funzionano nella nostra città", aveva dichiarato Patrizia Pesenti. Parole lontane anni luce da quelle degli altri candidati e dalla lettura del capo gruppo in consiglio comunale Martino Rossi che avevano parlato di una Lugano governata dall'"asse contro natura del liberalismo con il nazionalpopulismo" e di un "Municipio alla deriva per il logorio dei suoi membri e dei suoi vertici". Quale Lugano vuole il PS? E quali assi è disposto a giocare per la partita di aprile?

L'addio di Pesenti, sorta di "Borradori della sinistra", suono sinistramente come un "Addio Lugano bella" per la sezione luganese. Invece di sognare il raddoppio nell'Esecutivo luganese il rischio è quello di dover difendere senza ambizioni il seggio lasciato libero da Nicoletta Mariolini. E il disorientamento, causato dal duplice ammutinamento nella lista socialista, rischia di favorire gli avversari e di accentuare ancor di più la polarizzazione della sfida elettorale luganese, caratterizzata dallo scontro PLR-Lega per le chiavi della città.
 
 

(Pubblicato su RSI.ch il 23 gennaio 2013)