giovedì 31 ottobre 2013

L'Atletico non è una minaccia, ma una speranza


“Io sarei nato per il calcio e sarei morto per il calcio. A centrocampo, sarei voluto morire a centrocampo. O meglio ancora sulla trequarti avversaria. Non c’è posto più bello della trequarti avversaria. E’ una conquista, un’invasione. Una scoperta…” (p. 11)

E una scoperta è il libro di Marco Marsullo Atletico Minaccia Football Club in cui si racconta la passione per il pallone vissuta da Giovanni Cascione aspirante José Mourinho. Nell'unico modo possibile: seriamente e con ironia.

 



“La prima regola del calcio secondo Cascione è: la squadra gira se gira l’allenatore, i calciatori sono solo pedine di un gioco più grande di loro.”
“La seconda regola del calcio secondo Cascione è: non esistono partite amichevoli, solo partite da vincere. Il fair play è un’invenzione dei Testimoni di Geova.”

“La terza regola del calcio secondo Cascione è: non conta quanti gol prendi in una giornata storta, ma quanti altri potevi prenderne se la partita non fosse finita.”
“La quarta regola del calcio secondo Cascione è: le donne dicono che un diamante è per sempre, ma cosa volete che capiscono le donne? Infatti non sanno giocare a pallone. Una sola cosa dura per sempre: il calcio.”

“La quinta regola del calcio secondo Cascione è: la stagione più bella è sempre quella che verrà dopo. Nel calcio c’è spazio per la speranza. La parola fine, nel sistema ciclico delle stagioni, non esiste. Il calcio è l’unica maniera per essere immortali.”

“La sesta regola del calcio secondo Cascione è: il gol è un attimo. Dopo quell’attimo il gol cessa di esistere, esiste solo la partita. Che è l’unica cosa che nel calcio non dura un attimo ma novanta minuti. Più recupero.”
“La settima regola del calcio secondo Cascione è: nel calcio conta solo chi vince. Ma ogni tanto anche chi perde.”

lunedì 21 ottobre 2013

Il colpo segreto di Maradona

di Massimo Gramellini

Il Maradona che ho conosciuto alla fine degli anni Ottanta era più bravo a giocare che a vivere. O forse soltanto quando giocava sembrava vivere davvero. La storia che voglio raccontarvi parla proprio di uno di quei momenti e si è talmente impressa nella memoria che molti anni dopo finì per ispirarmi un Buongiorno e addirittura una pagina del mio primo romanzo, che con il calcio non c’entrava niente.
 




Era il mezzogiorno di un sabato, alla vigilia di qualche partita importante, e Maradona, tanto per cambiare, non si era presentato agli allenamenti per tutta la settimana. Il povero addetto stampa del Napoli aveva esaurito la scorta di bugie: la foratura della gomma, la visita medica, l’influenza contagiosa. Il giovedì, proprio quando veniva dato a letto con 40 di febbre, Maradò (come lo chiamavamo tutti) era stato beccato in discoteca nel cuore della notte con un bottiglia vuota di champagne in equilibrio precario sulla testa.

Ma il sabato mattina si presentò al campo di allenamento. Ovviamente in ritardo, e scortato dal consueto cespuglio di microfoni e taccuini. Uno dei taccuini lo tenevo in mano io, inviato di un giornale del nord e quindi già solo per questo sospettabile di pregiudizi negativi nei suoi confronti. In realtà quel genio del bene e del male mi stava simpatico come un fratello matto. Forse perché, nonostante fosse strafottente e distruttivo, in mezzo a tanti manichini sembrava quasi una persona.

Quel sabato, dunque, al termine dell’allenamento, Maradona non seguì i compagni negli spogliatoi, ma rimase sul campo per allestire uno spettacolo destinato ai giornalisti. Dribbling tra i birilli e palleggi. Era il suo modo di vendicarsi di noi. Scrivevamo ogni giorno che era finito, che non si reggeva in piedi? Ebbene, guardatemi, pareva dire. Guardatemi e tacete.

A un certo punto esagerò. Sistemò il pallone sulla linea di fondo campo. Ma non all’altezza della bandierina del calcio d’angolo: da lì sono buoni tutti (insomma, alcuni…). Lui la mise molto più vicino alla porta: nel punto in cui la linea di fondo interseca l’area piccola del portiere.

Da lì la porta non riesci a vederla neanche se sei strabico. Puoi vedere solo la parte esterna del palo, ma è talmente vicina che ti sembra un muro: fare gol da quella posizione non è difficile. È impossibile. Bisognerebbe violare una ventina di leggi fisiche. Colpire il pallone con un tiro che a metà del suo breve tragitto si pieghi verso l’esterno per evitare il palo e poi, ma immediatamente, compia una conversione di novanta per infilarsi in porta.

Maradona calciò il pallone e lo infilò in porta. Non una, ma cinque volte. Perché si capisse che la prima non era stato un caso.

Io lo guardavo a bocca aperta, e non ero il solo. Seduto a bordo campo, in adorazione, c’era un ragazzo delle squadre giovanili del Napoli. Era stato lui a passare a Maradona i cinque palloni che, uno dopo l’altro, quel satanasso aveva messo sulla linea di fondo campo e da lì in rete.

Pensando di non averci ancora umiliato abbastanza, Maradona scavalcò la rete di recinzione che lo separava dai giornalisti e ci raggiunse. Appena si accorse che dalla tasca di un mio collega spuntava un mandarino, glielo chiese in prestito. Se lo appiccicò al piede sinistro e cominciò a palleggiare per cinque, dieci, venti minuti: tutto il tempo dell’intervista. Rispondeva alle domande e intanto il mandarino andava su e giù, come se fosse attaccato a un cordino invisibile.

A un certo punto sentimmo dei latrati provenire dal campo. Era il ragazzo delle squadre giovanili che da venti minuti stava provando a imitare il famoso tiro dalla linea di fondo. Ma i suoi tentativi morivano tutti regolarmente contro il palo: questo spiegava i latrati di disperazione.

Fu allora che Maradona, con un ultimo colpo di tacco, parcheggiò in terra il mandarino e tornò in campo. Si avvicinò al ragazzo e gli disse: Non ti preoccupare, alla tua età non ci riuscivo nemmeno io. Adesso ti insegno”. Il più famoso calciatore del mondo si inginocchiò davanti al ragazzo, gli afferrò un piede e lo accostò al pallone in un certo modo: “Ecco, devi colpire proprio qui.”

Poi, come se niente fosse, tornò in mezzo a noi, risuscitò il mandarino e ricominciò a parlare e a palleggiare. Ma non a lungo, perché fummo interrotti da un urlo: Goool.

Alla fine il ragazzino ce l’aveva fatta. Era stato davvero bravo e tenace: il talento, se non si appoggia al carattere, conta meno di zero.

Quel ragazzino si chiamava Gianfranco Zola e un giorno anche lui avrebbe insegnato a un altro ragazzino il colpo segreto di Maradona.

Questa settimana intrisa di rabbia e rassegnazione meritava un congedo all’insegna della speranza. Una storia capace di ricordarci che andrà tutto bene, alla fine e, se non andasse tutto bene, vuol dire che non è ancora la fine.

Buonanotte.

 

P.S. Mi si fa giustamente notare che all’epoca di questo episodio Zola non faceva parte delle giovanili, ma era una giovane riserva della prima squadra. Mi ha ingannato il ricordo di averlo visto giocare per la prima volta nella Primavera del Napoli come fuoriquota (aveva 23 anni). Ma non credo che questo lieve scarto temporale (23 anni anziché 18-20) procuratomi dalla memoria modifichi la veridicità e il senso della storia che si svolse sotto i miei occhi.

(il testo della ’Buonanotte’ data domenica 20 ottobre 2013 da Massimo Gramellini ai telespettatori di “Che tempo che fa” su RaiTre)