di Massimo Gramellini
Il Maradona che ho
conosciuto alla fine degli anni Ottanta era più bravo a giocare che a vivere. O
forse soltanto quando giocava sembrava vivere davvero. La storia che voglio
raccontarvi parla proprio di uno di quei momenti e si è talmente impressa nella
memoria che molti anni dopo finì per ispirarmi un Buongiorno e addirittura una
pagina del mio primo romanzo, che con il calcio non c’entrava niente.
Era il mezzogiorno di un sabato, alla vigilia di
qualche partita importante, e Maradona, tanto per cambiare, non si era
presentato agli allenamenti per tutta la settimana. Il povero addetto stampa
del Napoli aveva esaurito la scorta di bugie: la foratura della gomma, la
visita medica, l’influenza contagiosa. Il giovedì, proprio quando veniva dato a
letto con 40 di febbre, Maradò (come lo chiamavamo tutti) era stato beccato in
discoteca nel cuore della notte con un bottiglia vuota di champagne in equilibrio
precario sulla testa.
Ma il sabato mattina si presentò al campo di
allenamento. Ovviamente in ritardo, e scortato dal consueto cespuglio di
microfoni e taccuini. Uno dei taccuini lo tenevo in mano io, inviato di un
giornale del nord e quindi già solo per questo sospettabile di pregiudizi
negativi nei suoi confronti. In realtà quel genio del bene e del male mi stava
simpatico come un fratello matto. Forse perché, nonostante fosse strafottente e
distruttivo, in mezzo a tanti manichini sembrava quasi una persona.
Quel sabato, dunque, al termine dell’allenamento,
Maradona non seguì i compagni negli spogliatoi, ma rimase sul campo per
allestire uno spettacolo destinato ai giornalisti. Dribbling tra i birilli e
palleggi. Era il suo modo di vendicarsi di noi. Scrivevamo ogni giorno che era
finito, che non si reggeva in piedi? Ebbene, guardatemi, pareva dire.
Guardatemi e tacete.
A un certo punto esagerò. Sistemò il pallone sulla
linea di fondo campo. Ma non all’altezza della bandierina del calcio d’angolo:
da lì sono buoni tutti (insomma, alcuni…). Lui la mise molto più vicino alla
porta: nel punto in cui la linea di fondo interseca l’area piccola del
portiere.
Da lì la porta non riesci a vederla neanche se sei
strabico. Puoi vedere solo la parte esterna del palo, ma è talmente vicina che
ti sembra un muro: fare gol da quella posizione non è difficile. È impossibile.
Bisognerebbe violare una ventina di leggi fisiche. Colpire il pallone con un
tiro che a metà del suo breve tragitto si pieghi verso l’esterno per evitare il
palo e poi, ma immediatamente, compia una conversione di novanta per infilarsi
in porta.
Maradona calciò il pallone e lo infilò in porta.
Non una, ma cinque volte. Perché si capisse che la prima non era stato un caso.
Io lo guardavo a bocca aperta, e non ero il solo.
Seduto a bordo campo, in adorazione, c’era un ragazzo delle squadre giovanili
del Napoli. Era stato lui a passare a Maradona i cinque palloni che, uno dopo
l’altro, quel satanasso aveva messo sulla linea di fondo campo e da lì in rete.
Pensando di non averci ancora umiliato abbastanza,
Maradona scavalcò la rete di recinzione che lo separava dai giornalisti e ci
raggiunse. Appena si accorse che dalla tasca di un mio collega spuntava un
mandarino, glielo chiese in prestito. Se lo appiccicò al piede sinistro e
cominciò a palleggiare per cinque, dieci, venti minuti: tutto il tempo
dell’intervista. Rispondeva alle domande e intanto il mandarino andava su e
giù, come se fosse attaccato a un cordino invisibile.
A un certo punto sentimmo dei latrati provenire dal
campo. Era il ragazzo delle squadre giovanili che da venti minuti stava
provando a imitare il famoso tiro dalla linea di fondo. Ma i suoi tentativi
morivano tutti regolarmente contro il palo: questo spiegava i latrati di
disperazione.
Fu allora che Maradona, con un ultimo colpo di
tacco, parcheggiò in terra il mandarino e tornò in campo. Si avvicinò al
ragazzo e gli disse: Non ti preoccupare, alla tua età non ci riuscivo nemmeno
io. Adesso ti insegno”. Il più famoso calciatore del mondo si inginocchiò
davanti al ragazzo, gli afferrò un piede e lo accostò al pallone in un certo
modo: “Ecco, devi colpire proprio qui.”
Poi, come se niente fosse, tornò in mezzo a noi,
risuscitò il mandarino e ricominciò a parlare e a palleggiare. Ma non a lungo,
perché fummo interrotti da un urlo: Goool.
Alla fine il ragazzino ce l’aveva fatta. Era stato
davvero bravo e tenace: il talento, se non si appoggia al carattere, conta meno
di zero.
Quel ragazzino si chiamava Gianfranco Zola e un
giorno anche lui avrebbe insegnato a un altro ragazzino il colpo segreto di
Maradona.
Questa settimana intrisa di rabbia e rassegnazione
meritava un congedo all’insegna della speranza. Una storia capace di ricordarci
che andrà tutto bene, alla fine e, se non andasse tutto bene, vuol dire che non
è ancora la fine.
Buonanotte.
P.S. Mi si fa giustamente notare che all’epoca di
questo episodio Zola non faceva parte delle giovanili, ma era una giovane
riserva della prima squadra. Mi ha ingannato il ricordo di averlo visto giocare
per la prima volta nella Primavera del Napoli come fuoriquota (aveva 23 anni).
Ma non credo che questo lieve scarto temporale (23 anni anziché 18-20)
procuratomi dalla memoria modifichi la veridicità e il senso della storia che
si svolse sotto i miei occhi.
(il testo della
’Buonanotte’ data domenica 20 ottobre 2013 da Massimo Gramellini ai telespettatori di “Che tempo che fa” su RaiTre)