mercoledì 29 gennaio 2014

Viaggio nel caveau della moda

Come ti realizzo un servizio sul polo logistico-distributivo di Sant’Antonino

L’attesa è finita. Dopo tre mesi di corteggiamento finalmente incontro quelli della Gucci. Nominativi annunciati via mail, documenti consegnati all'entrata, eccoci entrati nel caveau del lusso di Sant’Antonino. Io, il cameraman e il fonico. Quelli della sicurezza ci accompagnano lungo un dedalo di corridoi e di uffici, tutti asetticamente bianchi. Ci attendono in nove. L’amministratore delegato, il direttore delle finanze, tre addette alla comunicazione e altre persone addette a diversi compiti, tutti in inglese, tutti – immagino  - importanti. Sono tutti in completo scuro, camicia bianca e cravatta. Tranne noi. Ci presentiamo: nella giungla di strette di mano e nella lotteria dei nomi carpisco solo quelli del direttore finanziario e dell’amministratore delegato. È lui a prendere la parola e a snocciolare cifre e slogan. Dal numero di marchi rappresentati dal Gruppo (diciannove) alla cifra d’affari (nove miliardi di euro nel 2012), sino ad arrivare al fatidico “Noi vendiamo immagine, veicoliamo sogni; per questo vogliamo controllare ogni parola e ogni filmato che esce da qui...”. Sembra una premessa, ma il più è fatto. Da quando è arrivato in Svizzera, nel 1996, il gruppo non ha praticamente mai aperto le porte alla stampa e se dopo mesi di avances, di mail e di telefonate siamo qui a parlare, è chiaro che il reportage si farà.

La corte dei miracoli
L’incontro per conoscerci dura un’ora e mezza, ci scambiamo i biglietti da visita e ci diamo appuntamento alla settimana successiva. Entriamo nel ventre del centro logistico. E’ immenso. Vi starebbero sette campi da calcio. Da qui, ogni anno, passeranno 19 milioni di prodotti provenienti dall’Italia, diretti in tutto il mondo. Filmiamo la sinfonia di carrelli, binari, muletti, rulli e cuscinetti. È un tetris automatizzato che non sbaglia mai un colpo: ogni imballaggio "made in Italy" finisce al posto giusto. In fondo non stupisce che tanta tecnologia e precisione abbiano a che fare con il lusso e con la moda. Ogni nostro passo è seguito da uno stuolo di accompagnatori: addetti alla sicurezza, alla produzione, alla comunicazione, ecc.. Nulla sfugge al loro controllo: se lascio il piccolo corteo, vengo gentilmente richiamato “Ha bisogno? Cerca qualcosa?” Dopo un’altra ora e mezza siamo fuori, evasi dal “centro di eccellenza” – per riprendere le parole dell’AD. Appuntamento tra sei giorni a Cadempino.



Scusate l’attesa
Sul piano del Vedeggio, a Cadempino prima e a Bioggio poi, vi sono gli insediamenti storici del Gruppo che sino al 2003 era mono-marca e che ora, passato in mani francesi, si chiama Luxury Goods International. La sede centrale di Cadempino è totalmente anonima, color rame, solo il nome sul citofono ci conferma che non ci siamo sbagliati. Alle segretarie all'ingresso lasciamo i nostri nomi, mostriamo un documento e compiliamo un modulo in cui apprendiamo come comportarci in caso di allarme. E aspettiamo. Dopo un quarto d’ora, le tre addette alla comunicazione ci accolgono calorosamente, ci accompagnano nella sala riunioni e ci informano che l’AD e il direttore finanziario si stanno preparando per l’intervista. Dovrebbe essere una rassicurazione, ma attendiamo ancora mezz'ora. La sala riunione è totalmente bianca. Grande tavolo laccato di bianco, poltrone in pelle bianca. Tutto immacolato. Solo uno schermo al plasma e un vaso di Murano  macchiano questo candore. Ci viene offerto un caffè. Mi viene richiesto il tempo a disposizione, la durata delle dichiarazioni e i temi che intendo affrontare. Dopo un’ora e mezza di attesa, di scuse e di imbarazzi reciproci, iniziamo l’intervista. Prima l’Amministratore delegato, poi il direttore. Ogni parola detta viene trascritta dalle tre assistenti alla comunicazione. Incasso alcuni no comment, ma aldilà di una terminologia a volte ricercata, l’incontro è schietto e sono soddisfatto. Ci salutiamo, concordando la data della messa in onda e la possibilità di vedere il servizio prima della trasmissione.



Finale con psicodramma
Sei minuti e cinquantadue secondi: tanto dura il reportage. Finito il montaggio il venerdì, il lunedì mattina lo mostro al direttore finanziario e a una delle addette alla comunicazione; l’AD – mi viene – detto è stato trattenuto da una conference call con la Cina. Guardano le immagini in silenzio, alle loro spalle colgo smorfie e commenti sottovoce. Sono due i passaggi delicati, riguardano la fiscalità e la manodopera estera. Mi anticipano una perplessità su un passaggio e chiedono che una risposta venga sostituita con una più istituzionale. Lo immaginavo, accetto, correggiamo. Il pomeriggio, dopo un consulto con l’amministratore, mi richiamano e insistono. Pretendono che il passaggio sulla fiscalità non vada in onda; spiego le mie ragioni e inizia un braccio di ferro. Al mattino seguente cedono loro, ma chiedono di ripristinare la prima risposta, quella meno istituzionale. Vabbé, correggiamo e confermo la messa in onda per il giorno successivo. Ma non è finita. La sera mi viene chiesto di rimuovere un’immagine: questione di vita o di morte, anche il responsabile della comunicazione del gruppo disturbato sino in Giappone concorda: quell'immagine del 2004 è fuorviante. “È un’immagine di repertorio, è storia”, ribatto io, ma loro sono irremovibili. Rinnovano la litania di cifre d’affari e di marchi, il danno d’immagine – spiegano – sarebbe "irre-pa-ra-bile". “La situazione è estremamente seria”, “l’importanza vitale”, “le conseguenze pesanti”, mi scrive accorata la portavoce del gruppo. Ne parliamo in redazione e decidiamo di porre fine a questa odissea. Sostituiamo il logo Gucci che avrebbe dovuto comparire dopo ca. 2’ con altre due immagini d’archivio. Dopo quattro mesi dal primo colloquio telefonico stasera il reportage va in onda.

Questo il servizio andato in onda al Quotidiano del 29 gennaio 2014 @RSIonline 

venerdì 10 gennaio 2014

C'è un grande prato verde



“Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l'albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là. Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos'altro che porti poi la nostra impronta. La differenza tra l'uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere sta nel tocco, diceva. Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta una vita.”

(Fahrenheit 451, Ray Bradbury - 1953)
 
 
Sessant’anni dopo
“Mia nonna, poi mio padre curarono questi vasi. La cura del mondo è un'abitudine che si eredita. A dieci anni riempivo l'annaffiatoio per mio padre, e la facilità con la quale lui maneggiava con una sola mano quei dieci litri d'acqua che io gli porgevo con fatica e impaccio mi pareva il traguardo della mia infanzia. Ora che maneggio con la stessa destrezza quei dieci litri, e sono dunque adulto, mi rendo conto che nessuno mi porge l'annaffiatoio. Una catena è spezzata - ne sono l'ultimo anello. Non c'è dubbio. Sono l'ultimo anello.”
(Gli sdraiati, Michele Serra- 2013)