mercoledì 2 novembre 2016

«Like rain in your eyes»
Non conosco personalmente Daniele Finzi Pasca. Le nostre strade si sono sfiorate diverse volte, ma sempre con quel distacco dettato dalla professione, dalla discrezione, dal non so che.
Un anno fa - il 12 settembre, giorno dell'inaugurazione del LAC - ebbi modo di conoscere il suo candore e il suo amore per la sua sposa, Julie. Eravamo nella pancia del teatro pronti per la diretta al Quotidiano quando un "securitas" ci chiese di fare spazio. Sarebbe dovuta arrivare un'ambulanza. Neppure il tempo di indagare su eventuali infortuni o malori che l'arrivo di DFP scacciò le preoccupazioni del cronista. Sull'ambulanza c'era sua moglie Julie, già malata, desiderosa di assistere accanto al marito a "La Verità", la pièce d'apertura del #LAC. Le sue scuse per il disturbo arrecatoci, la premura e la tenerezza nei confronti dell'amata ci commossero e, in quella giornata di sorprese, andammo in onda con negli occhi la poesia di quell'intimità rubata dietro le quinte. La stessa tenerezza, devozione e comunione si vedono in "Per te", alla cui prova generale prima del debutto ho avuto il privilegio di assistere.



"Per te" è un'opera emotivamente coinvolgente tanto è impregnata della presenza di Julie, la moglie, la compagna, l'amica amata e pianta e, quasi inevitabilmente, è uno spettacolo in cui si ride e si piange, ci si commuove e si sorride. Un carnevale di situazioni, colori e musiche in cui vanno in scena l'affetto per l'amica e l'amore per il teatro. Ci sono i ricordi degli amici, gli aneddoti dei colleghi e i racconti di Montreal, ci sono scene che sembrano acquerelli di Folon, ci sono le acrobazie circensi, i sogni, le gag, i non sense, le "cretinate" che rapiscono e strappano risate, perché «c'è tutta la speranza del mondo negli occhi di una torta felice». C'è tanto rosso come il cuore, i papaveri e quel filo che si cerca di riavvolgere. Quel cuore è full, pieno di domande («perché sappiamo i nomi di ogni tipo di pasta, ma non abbiamo parole precise per descrivere la tristezza?!»).


E poi c'è il vento che soffia impetuoso, facendo danzare colori e poesia, regalando incanto e magia. «Le vent se lève!... Il faut tenter de vivre» scriveva #Valéry e quel verso reso pop da #Miyazaki e #Jovanotti suona come una necessità e un compito con cui convivere. "Per te" è il racconto di questa condizione di vita: di chi è fragile nonostante l'armatura indossata, di chi è pieno di cicatrici e vorrebbe alzare bandiera bianca, di chi ha nostalgia di un Dio «che come un cane fedele ti aspetta sempre», di chi non ci sta più a questo gioco e non vuol farsi più «fregare con le stelle». Di chi sente la mancanza della persona amata e convive con la sua presenza/assenza. Pensavi Finzi Pasca parlasse del suo dolore e invece parla di te.


E così, alla fine, quando cala il sipario e l'applauso scaccia in gola la commozione, viene voglia di abbracciarsi, di stringersi a Daniele perché a questo punto sembra di conoscerlo come un amico e perché non si può rimanere soli per sostenere questo compito. Potevano sopraffarti il dolore e la malinconia, ha vinto la gratitudine. Ecco queste righe sono un abbraccio, non una recensione teatrale. Si alza il vento, bisogna vivere...
Grazie @finzipasca ! #LAC #PerTe #compagniafinzipasca #premiere #2novembre 

domenica 23 ottobre 2016

Quando Michael Jordan atterrò vicino a me 

(e io me ne accorsi qualche anno dopo...)


Come i marziani arrivò dal cielo e solo la nostra ingenuità di ragazzi non ci fece dubitare avesse sbagliato il luogo dove atterrare. Michael Jordan non era ancora Michael Jordan, ma la storia dello sport aveva deciso di accarezzare proprio un paesino della Valmalenco, Caspoggio, facendovi planare quello che sarebbe stato uno dei suoi astri più luminosi, il più grande.
MJ con Diego Pini, colui che permise l'arrivo in Valtellina della stella di Chicago
Era la metà degli Anni Ottanta e per noi che eravamo lì ad aspettarlo la pallacanestro era soltanto l’altro modo di giocare a pallone, l'America l'altra faccia della luna. A nobilitare quell’attesa vi erano un tappeto rosso che dal piazzale del mercato conduceva alla palestra e la nostra curiosità di vederlo calcare da uno americano vero, uno la cui carriera non avesse già imboccato la china discendente. C’erano stati Manuel Raga e Oscar e sarebbe arrivato Bob McAdoo, ma il riconoscimento “matricola dell’anno” e quella sigla “en-bi-ei riempivano quel pomeriggio dopo Ferragosto di frenesie e promesse cui non sapevamo dare un nome.
Quando scese dall’elicottero con la tuta scura, la collanina d’oro e le scarpe con lo swoosh (che in età pre-paninara erano già un oggetto del desiderio) pensai che in fondo His Airness non era così alto, “non più di mio cugino Danilo”. Non era previsto giocasse una partita, era atteso a Bormio per il “Valtellina Basket Circuit”, prima di una partita il giorno dopo a Trieste con la maglia della Stefanel. Così scherzando e dando un cinque ai ragazzi MJ entrò nel piccolo palazzetto dello sport costruito all’epoca dell’euforia per i mondiali di Bormio. Accennò qualche tiro, un paio di entrate e le immancabili schiacciate. Balena un'immagine apparentemente insignificante di quello che sarebbe diventato un marchio di fabbrica: la linguaccia, anzi la lingua che spuntava dalla bocca quando giocava. Anch’io quando ero concentrato a disegnare o a fare i compiti mi arrovellavo con la lingua e quel giorno, per quel particolare, mi sorpresi ad azzardare un irriverente paragone: "Michael Jordan è come me”.

Non ricordo dopo quanto, né come ripartì. Le vacanze stavano terminando e il ricordo di quell’estate si sarebbe portato via anche Michael Jordan. Non c’erano cellulari per immortalare quel momento, non gli strappai un autografo da dimenticare in qualche cassetto, ma la fragranza di quella madeleine cestistica l’ho riassaporata quando ho ritrovato online un video pubblicitario sulla sua tournée italiana nel 1985.
Nessun accenno a quel passaggio a Caspoggio e anche i giornali di allora tacciono. Nelle pagine locali de Il Giorno c’è una frase, un rigo appena. Il resto è lasciato alla memoria di chi c'era, di chi ha visto Michael Jordan quando ancora non era quel Michael Jordan.




PS: grazie Antonia Marsetti per le verifiche e la ricerca negli archivi di Sondrio...

lunedì 22 agosto 2016

Il mio bar sport

#Ilmiobarsport 


Il mio Bar sport è sempre lì ma non c’è più. Non ricordo quando mia zia non ce l’ha più fatta ad alzare la serranda tutte le mattine. È avvenuto tutto piano piano, così come si scendono i tornanti da Santa Elisabetta a Caspoggio alla ricerca di un nuovo ritrovo.



Il mio Bar sport si chiamava Bar del pino, ma chi lo frequentava diceva semplicemente che andava “a bere qualcosa” o “dal Livio”, che era poi mio zio. Anche per questo andarci era un po’ come stare in famiglia. Da quella volta che ci entrai con il biglietto da cinquecento lire stretto in pugno per comprare il gelato la scena è sempre stata la stessa. Mio zio gioca a carte a un tavolino sulla sinistra. Come incenso il fumo delle sigarette avvolge i giocatori e il silenzio religioso è rotto solo da improvvise grida di giubilo, imprecazioni o il rumore della lancia vapore della macchina del caffè. Quando mio zio mi vede con slancio paterno mi chiede come va a scuola, mi offre un gelato o qualcosa da bere e mi presenta uno degli avventori che regolarmente è un lontano parente di mia madre. Io sono il nipote che studia “in dentro” e la parola “Svizzera” per tutti rappresenta un eldorado, sofferto o bramato. Dietro al bancone di legno scuro in bellavista ci sono i trofei dei torni di calcio e le bottiglie di amari e vermouth messi in risalto dallo sfondo a specchio. Mi zia si muove con pazienza e con tenero equilibrismo fa quadrare gli slanci di generosità del marito con le esigenze di cassa. Con solerzia serve abitué, villeggianti e forestieri. Fa anche cocktail ma non li chiama cocktail: la “bicicletta” come aperitivo o il “grigioverde” come digestivo. Sulla destra c’è il frigo dei gelati. Sopra con studiata non curanza c’è sempre una copia della Gazzetta o del Giorno. Appoggiato lì, trascorro il mio tempo libero chiacchierando con i miei cugini immerso in quel piccolo laboratorio di umanità. 



Il mio Bar sport è legato a quelle estati di vacanza in Valtellina e andarci ha scandito la mia crescita. Come al bar delle grandi speranze “ci andavo soprattutto quando avevo bisogno di essere ritrovato” e lì, anche quando lo zio non c’era più, io ero a casa. Anche per questo – anche oggi che son diventato uomo e quel bar non c’è più – come il suo arredo il mio ricordo e la mia gratitudine sono immutati.


Articolo inviato a Repubblica in occasione dei 40 anni del libro di Stefano Benni Bar Sport 

lunedì 4 luglio 2016

Avrei voluto citare David Foster Wallace e il suo Una cosa divertente che non farò mai più. Mi sarebbe piaciuto parlare di estetica e di epifanie.. Ma poi ho pensato che era più semplice, raccontare come è andata venerdì 1. luglio. 

Floating Piers, ovvero non solo l'arte di stare a galla


Venti euro?! Ven-ti, due-zero, scandisce l’omino con la pettorina gialla. Venti euro per un posto auto in un campo fuori Pilzone, a tre chilometri da Sulzano. E la navetta? Più in là, a 300 metri ci sono gli autobus, cinque euro a persona, ma questa è la coda… Dallo sconforto alla speranza il passo è breve.  Lo vede quel furgone, incalza. Sì. È un tassì privato… con altri 20, 25 euro ve la cavate, vi porta lui. È però vano il tentativo di negoziare la tariffa con il tassista improvvisato… “Signori, qui è un guerra, non ci si muove… Venticinque euro è il minimo, non scherziamo!”. Il viaggio, l’ora, i bambini, la calura sono tutte ragioni per mettere mano al portafogli. La legge della domanda dell’offerta non lascia scampo: nei giorni di Christo sul Lago d’Iseo tutto costa, tutto costa di più, ma quando arriviamo all’inizio della passerella arancione è quasi una sorpresa avere la conferma che passeggiare sull’istallazione è gratis. Lo stupore di un dono tra tanto business e marketing.


Perché c’è scritto di non fermarsi? Chiede Sofia quando il vicolo svolta e intravvediamo per la prima srotolarsi sulle acque del lago il lungo percorso arancione. Ci fermiamo, per non sbattere contro gli altri visitatori arrestatisi, incantanti. Un inatteso momento estatico, da mozzare il fiato, da interrompere il cammino. Ecco perché Sofia… Quando uno si imbatte in una cosa bella, le spiego, si ferma ad ammirarla, ma così si creano intoppi e code. Per questo c’è quel cartello. Mia figlia mi guarda perplessa. E come fai a non fermarti, allora?




Le onde del lago accarezzano i lembi della passerella. Per camminare sull’acqua le due più piccole si tolgono i sandali, ammirano gli anatroccoli incuranti e il cigno vanesio che sostano lungo il percorso. Ogni tanto l’acqua invade il molo galleggiante e sorprende il visitatore. Come facciamo a stare a galla? Virginia è curiosa, vuole capire cosa accade quando arriva un’onda e il frangente puntualmente arriva. L’arancio diventa ancora più scuro, mentre il sole caldo del tramonto incendia di luce la pista d’acqua.



Giuditta non capisce: non comprende perché ci sia una folla simile, non concepisce attese e code simili. Hai mai pensato di dipingere sull’acqua, le avevo chiesto per far leva sulla sua vena artistica, ma nulla. Avevo usato l’analogia romanticheggiante dei raggi del sole che disegnano sulle acque lacustri quello che l’artista d’origine bulgara e sua moglie hanno ideato… Niente. Christo – aveva sentenziato prima ancora di partire – non meritava cinque ore di viaggio. Ora però scatta fotografie a tutto spiano. Sì, ammette malvolentieri, almeno si possono fare delle belle foto.



Su quella passerella il corteo è incessante, un inatteso Quarto stato in costante cammino. Ci sono tutti: turisti da ogni dove, curiosi di ogni età, adolescenti intenti a fotografare-instagrammare-postare, vitelloni in libera uscita, anziani in fuga dalla calura di città, falsi invalidi e veri appassionati d’arte, venditori di salamelle e vu cumprà dall’accento bresciano… Loro sono persino troppi, è quasi scandalosa questa affluenza record. Tutti improbabili esperti d’arte, tutti di passaggio per dire “io c’ero”, tutti inconsapevoli cacciatori di bellezza. Quella bellezza intravista tra le pieghe del tessuto increspato di luce e di acqua. Quell’eccezionalità di cui parlano giornali e tigì e che oro vogliono per sé. Forse, chissà, per affermare non solo incoscientemente che partecipare a un’opera d’arte vuol dire affermare qualcosa di irriducibile e unico di se stessi. Per loro, quella massa così eterogenea e burina, siamo noi. Passa la banda degli alpini e al largo, poco distante, a bordo di un battello transita anche Christo. Ammirerà compiaciuto il suo successo? Osserverà commosso chi sta beneficiando del suo dono?



Jacopo fa notare come al quattordicesimo giorno la stoffa sia macchiata, lungo la passerella si scorgono alghe e fa capolino un po’ di sporcizia. È come intravvedere una ruga sul volto di chi si ama. Si sta logorando, prendiamo atto. D’altronde è un’opera temporanea, spiego loro. Da lunedì, concludo, iniziano a smontarla. E tutti, sia i più grandi sia le più piccole insorgono: ma come? Perché fare un’opera così per sole due settimane? Citando un’intervista letta sul Corriere spiego loro che Christo voleva solleticare “il desiderio e la curiosità delle persone” e per farlo in fondo sedici giorni sono più che sufficienti. Anzi, basta un attimo, un istante, carpito e inatteso. Come una domanda imprevista cui non sai rispondere subito. Come quel raggio di sole al tramonto che ora è sparito dietro Monte Isola. 

giovedì 16 luglio 2015

Pantani, quel viso triste come una salita

Coppi e Bartali, Bartali e Coppi:  per mio papà la storia del ciclismo prima o poi torna sempre a loro due. Un ciclismo “eroico” per definizione, “epico”, dove le gesta sportive erano spesso fuga dalla miseria, storie di uomini e non solo di tifo, dai ricordi rigorosamente in bianconero.
Per me invece i primi ricordi ciclistici sono a colori: quelli delle biglie da spiaggia con il volto dei ciclisti. I loro nomi erano sempre un po’ retrò:  Merckx, Gimondi, De Vlaeminck o Van Impe con la maglia a pois rossi. La mia preferita. Poi un giorno, la mia pigrizia cullata dai racconti e dalla televisione è stata travolta dalle imprese di un mio coetaneo. Classe 1970. Era il 1994, e si chiamava MARCO PANTANI. C'era il Giro d'Italia e quel romagnolo piccolo ed esile divenne “il pirata”. Quell’anno arrivò secondo. Poi le cadute rovinose, le vittorie, come all’Alpe d’Huez, i nuovi infortuni e le risalite. Sino ai trionfi al Giro e al Tour de France nel 98. Come è andata a finire – poi – lo sapete. Il doping, la depressione, la solitudine, la morte.

Avete presente una gara ciclistica? Per i non appassionati può apparire noiosa. Perché  il ciclismo è lo sport dell’attesa. L’attesa del passaggio del gruppo nei paesi lungo il percorso. L’attesa dello sprint finale, l’attesa dello scatto risolutivo. Un attimo fugace, questione di pochi secondi. Un'attesa, come cantava Paolo Conte, riempita da un “silenzio che descriverti non saprei”. Verrebbe voglia di scomodare Leopardi e il sabato del villaggio...
Pantani – ciclisticamente parlando – ha rappresentato uno che sembrava rispondere a quest’attesa. Lo si guardava alla tivù e lo si aspettava. Più ancora delle vittorie ancor oggi ricordo l’attesa delle vittorie, il momento dell’attacco. Di quando partiva dalla coda del gruppo; si alzava sui pedali  e lasciava tutti sul posto. Leggero come una farfalla, nonostante la pesantezza nell’animo. Con la cattiveria agonistica del pirata e lo sguardo dolente,  “triste come una salita” per ricitare Paolo Conte. Perché vai così forte in salita?, gli chiese un giornalista. “Per abbreviare la mia agonia”, rispose. Come per confessare che i trionfi non bastavano. Un colpo al cuore pensando quel che è accaduto poi.
Con Pantani il ciclismo, lo sport fatto di storie eroiche e un po’ leggendarie raccontato dai padri e dai nonni,  è diventato a colori per una generazione forse non più abituata ad affrontare le salite. A parlare di sport e sacrificio, di imprese ma anche di solitudine. E anche di scorciatoie e illusioni come il doping. Con Pantani pensavamo di aver riscoperto l’epica, invece siamo stati messi di fronte a una tragedia. E le indagini e le polemiche sulle cause della sua morte non han fatto altro che rendere più denso il mistero su quel si cela nel cuore dell’uomo.
Ancor oggi, lungo l’autostrada verso Rimini, si vede  - sulla destra - un’enorme biglia da spiaggia con Pantani in maglia rosa. Una scultura voluta dal suo sponsor di allora. Una biglia colorata come quelle con cui si giocava una volta sulla sabbia. Il ricordo di un campione amato, ma pure un richiamo all’infanzia e a quel sentimento di libertà che si è provato da bambini la prima volta che si ha inforcato una bicicletta.




(Preparato per la serata sportiva #Pontresina2015)

Arrivava ultimo, ma arrivava

Anche il ciclismo poi - spiegano gli esperti - è “uno sport di squadra”. Sembra un paradosso. Nessuno dice tifo per l’Astana, la Lampre o la Tinkoff, ma poi quando ti appassioni inizi a capire chi c’è dietro la maglia gialla, la maglia rosa o la maglia iridata. Se i titoli li fanno i campionissimi, le vittorie, i meriti e soprattutto i premi si condividono con la squadra, con i gregari. Quelli che ti lanciano le volate, quelli che ti aspettano quando hai forato e ti fanno da traino nelle salite più dure, perché chi non arriva mai primo non necessariamente è scarso. Anzi.  Nei racconti del ciclismo che fu, colui che mi stava più simpatico era quello che arrivava ultimo. Sempre ultimo. Si chiamava MALA-BROCCA.
LUIGI “LUISÌN” MALABROCCA era, è la “maglia nera” per antonomasia.  Quello che va più piano, quello che ci mette di più, non perché fosse il più debole, ma perché per lui il fondo della classifica era l’inizio; soltanto considerato da un altro punto di vista. Nel dopo guerra al Giro d’Italia l’ultimo classificato riceveva la “maglia nera” e un cospicuo premio in denaro:  riuscire a conquistare il primato rovesciato (senza finire fuori tempo massimo) era un altro modo per sconfiggere la miseria. Malabrocca, la maglia nera, tra i forzati della bicicletta sembrava il più umano. In un momento storico in cui gli italiani si sentivano “ultimi”, era facile per la gente ai bordi delle strade affezionarsi a quel reietto che arrivava in fondo. Arrivava ultimo ma arrivava.


Con sotterfugi e stratagemmi, Malabrocca andava in fuga dietro al gruppo. Entrava nei bar per sottrarsi ai controlli degli avversari e non ne usciva più. Si nascondeva nei fienili e nelle scarpate. Una volta si tuffò addirittura in un pozzo poi scoperto da un contadino spiegò "Non ci crederà ma sto correndo il Giro d’Italia", risalì in bici e affrontò da solo il tappone dolomitico - Rolle, Pordoi e Gardena – e giunse al traguardo. Ultimissimo. Ma non fuori tempo massimo. Ultimo nel 1946, a 4 ore da Bartali. Ultimo nel 47, a quasi 6 ore da Coppi.
Nel ’49 è penultimo e all’ultima tappa del Giro decide d'imboscarsi in un’osteria, accetta l'invito a casa di un tifoso per parlare di pesca, poi si rimette in sella raggiunge il traguardo ma non trova più nessuno ad aspettarlo. I cronometristi – una volta tanto si erano spazientiti erano ed erano tornati a casa. Avevano classificato tutti con lo stesso distacco del gruppo. Anche il “Mala”. “Il cinese di Garlasco”, come veniva chiamato per gli occhi un po’ a mandorla – quell’anno arrivò solo penultimo. Una sconfitta. Ci rimase male. Appese la bicicletta al chiodo e ironia dello sport e della vita diventò pescatore lungo il fiume Ticino.

(testo preparato per serata sportiva #Pontresina2015)

lunedì 18 agosto 2014

Vivere, amare, morire in Israele


C’è vita in Israele: si scherza, si ama, si balla… la tensione di fondo del conflitto israelo-palestinese vibra sulla tela del romanzo senza ingombrarla: fa parte del tessuto connettivo di un Paese che convive con una ferita aperta. Al centro vi sono una grande storia d’amore e, soprattutto, un’amicizia confrontata alle vicende della vita. Qual è il suo collante? È vero che è possibile essere ancora amici perché “siete di Haifa”? Come si diventa adulti in un rapporto virile e virtuoso? Cosa c’entrano i Mondiali di calcio con il destino? Il Mundial consente di fermarsi, ogni quattro anni, per guardare la vita, fermarsi e capire cos’è cambiato. Un’occasione per esultare e per commuoversi e concludere che "La finale è domani (...) Tutto è ancora possibile".

 


«Scrivere un libro non è facile, ho ripetuto le sue parole mentre serpeggiavo verso il mare, verso il basso, per via Freud. Non è facile, ma ce l'ho fatta. Mi sono mosso. Sono uscito dal mio recinto e sono andato avanti a galoppare per due mesi. Senza che mi finisse l'ossigeno. Certo, l'ho fatto in nome di Ofir. In nome dell'armonia dei bigliettini. Ma se l'ho fatto una volta significa che posso farlo di nuovo. Posso liberarmi dalle mie catene. Dal pessimismo paludoso. Dall'autocontrollo scettico. Posso esprimere dei nuovi desideri per i Mondiali del 2006, e questa volta posso realizzarli. Posso cambiare. Rivelarmi. Trovare uno scopo. Posso amare un'altra, non Yaara. Posso - davanti a questo mare che mi si spalanca davanti in tutto il suo scintillio - posso persino continuare a essere amico dei miei amici in futuro, e non solo congelarli nel tempo attraverso la scrittura.»
(La simmetria dei desideri, Eshkol Nevo, p. 364)