mercoledì 4 novembre 2009

Appuntamento al buio


Sono andato a Milano a vedere Hopper e mi son perso da Abercrombie. A Palazzo Reale non ho fatto coda, fuori dal nuovo negozio in Corso Matteotti invece c’era una lunga lunghissima fila, ma neppure qui ho aspettato un minuto. Mosso da un’imprevista tenerezza alla vista di una famiglia con pargoli e bebé, il buttafuori ci ha buttato dentro. E sì che noi, unicamente incuriositi dalla coda, a quel punto non volevamo neppure entrare. A Milano io e mia moglie siamo andati con i due figli più grandi e la più piccola di due mesi. La scusa era Hopper. Andare a vedere una mostra è una cosa da grandi, avevamo spiegato alla terza di tre anni, rimasta a casa con i nonni. Ed ora eccoci qui fra tanti grandi, perlopiù giovanissimi, a celebrare con loro questo nuovo rito feriale nel nuovo tempio dello shopping meneghino. Un’esperienza collettiva e sensoriale.

E i ...sensi sono provocati sin dall’ingresso dove un modello a torso nudo, con un’abbronzatura non proprio novembrina e gli addominali scolpiti in bella mostra, ci accoglie e propone di farsi fotografare con lui. La distrazione di mia moglie e la vista della prole lo fanno desistere, non v’è neppure bisogno di un mio sussulto d’orgoglio.

Saliamo al terzo piano, reparto donna. Ci guida mia moglie che, fiutata la preda, ha preso saldamente le redini del comando. E’ tutto nuovo, è praticamente buio, ma lei si muove con frenetica sicurezza tra gli scaffali zeppi di felpe, magliette e jeans scoloriti. Le luci sono talmente soffuse che a stento si distinguono i colori e le trame dei tessuti. Temo mia moglie non scorga neppure i prezzi. Io con il bebé nel marsupio incasso i complimenti di commesse ormai troppo giovani e attendo con i due più grandi sprofondati in comode poltrone in pelle. Guardiamo e commentiamo le canoe in legno esposte, la testa dell’alce che ci scruta appesa al soffitto e la teca con i vecchi fucili. Fa tutto molto West, sembra tutto molto Old America e i divanetti son proprio comodi.

Mia moglie cambia reparto. Giacconi e borse in pelle. I bimbi si contendono il mio telefonino e mi rendo conto dal tono della mia voce per ammansirli che la musica di sottofondo è proprio forte. A tutto volume. Infatti, le commesse che non stanno servendo un cliente ancheggiano e abbozzano passi di danza. Sono moltissime, un plotone di ragazze biondeggianti. Camicia a quadrettoni, jeans e infradito, questa è la loro divisa. Anche i ragazzi sono giovanissimi e, mi farà notare poi mia moglie, piuttosto bellocci. Chiedo a una ragazza da dove viene. E’ australiana. Ma noi, interviene un collega di reparto, che abbiamo fatto il casting siamo di Milano. Dice proprio casting, come per il Grande Fratello o per le veline.

Nonostante il frastuono la più piccola continua a dormire. La più grande mi indica una ragazza a quadrettoni che spruzza un profumo sui capi esposti. Sull’etichetta del flacone c’è scritto “Spirit of Clothes”. Sarà anche per l’olfatto che qui si respira un’aria particolare. In effetti, il profumo un po’ vanigliato carezza le narici e impregna tutti i tessuti. Al terzo piano c’è un sacco di gente e anche sulle scale il viavai è impressionante. Ognuno afferra un indumento, pur piccolo; i più celeri escono trionfanti con la borsa di carta con i volti dei modelli in bianco-e-nero, quasi fosse uno scalpo conquistato al termine di una serrata lotta e una ancor più lunga attesa. Intanto, in un altro spazio del reparto, la commessa continua imperterrita a spruzzare il suo profumo.

Lascio l’angolo divanetti in cerca di mia moglie che temo in overdose da shopping. La intravvedo diretta alle cabine con un discreto numero di capi da provare. Dalla balconata osservo l’affresco alto tutti e tre i piani del negozio. E’ una sorta di Giudizio universale dell’homo atleticus, dai nuotatori agli arcieri. Sono lo sforzo fisico ed il gesto ginnico a essere esaltati. I dannati potremmo essere noi “Over 30” che gli addominali come quelli ritratti non li abbiamo avuti mai, ma una felpa col marchio A&F è la nostra speranza di redenzione.

Con i figli vado in pressing fuori dalle cabine di prova. Mia moglie ha scelto. Maglione, maglietta e blusa. Ha un’ultima esitazione, ma deciso vado verso le casse dove misteriosamente non c’è nessuno in fila. Nessuno. Eppure il negozio è pieno, mi volto e vedo decine di mani frugare tra magliette e camicie e di occhi alla ricerca dell’indumento giusto. Eppure sono solo davanti ai sei cassieri. Si vede che più che acquistare, l’importante è esserci. Chissà se ricorderò questa filosofia spicciola quando mi arriverà il conto della carta di credito.

Divertiti e stranamente anche un po’ imbarazzati lasciamo il negozio e all’uscita, ancor prima di notare che il modello a torso nudo e cambiato e di scorgere la lunga coda non ancora smaltita, vengo inonandato dall’ultima luce del pomeriggio. All’interno di Abercrombie era davvero buio. Tanta oscurità mi fa tornare in mente la luce nei quadri di Hopper visti al mattino. Lì il buio interiore della nuova borghesia americana veniva svelato da uno sguardo esteriore capace di rendere luminosa anche la solitudine più cupa. Vi era sempre un fiotto di luce a fare irruzione nei sui dipinti. Apparentemente un altro pezzo di America, lontano ben più di un secolo da quello in vendita qui. Eppure i volti di quei ritratti e di chi è in fila sono in fondo gli stessi, in attesa, gli sguardi puntanti verso qualcosa che c’è o è li per palesarsi. Oltre la cornice. Dentro e fuori da un negozio. Solo che dentro ad A&F è proprio buio.