mercoledì 12 giugno 2013

Il dramma di Chiasso, i dubbi del cronista e il bonzo di Jannacci


 
I suoni e le luci del luna park, il buio e il silenzio dentro. Le vampe improvvise e lo sguardo incredulo di chi passa di là. Solo a leggerla e a provare a immaginarla, la scena mette i brividi. Un uomo sulla sessantina s’è dato fuoco in pubblico. Non qui, dai, da noi non può succedere. Invece accade a Chiasso. E pochi giorni fa era accaduto a Solduno. Le fiamme come estremo tentativo di spegnere un male che pudicamente chiamiamo disagio. Un disagio che oggi – un po’ per sfatare il tabù del suicidio – giornalisticamente ha dato vita a un genere, “le vittime della crisi”, per tentare di trasformare in parole quel che ci lascia attoniti e disorientati. Alcol, solitudine e disperazione, ci spiega oggi chi sapeva ma non immaginava. La congiuntura, l’incertezza e l’instabilità, azzardiamo noi cronisti per raccontare storie che fino a ieri non diventavano notizie. Ma poi, una volta conosciute età, occupazione, origine e abitudini del protagonista, ci si arresta sull’uscio di un mistero apparentemente invalicabile. Quando la vita bussa così, ti accorgi che non basta la radiografia sociale per capire il perché di un gesto, che lavoro, amore e politica non possono rispondere ai problemi della tua esistenza. La scelta di togliersi la vita attiene a una zona insondabile del cuore umano che ha a che fare con la fragilità, il dolore, la paura. Mondi troppo profondi per farne oggetto di sociologia spicciola o affrettate analisi giornalistiche.

Cifre alla mano le statistiche di polizia ci dicono che in Ticino non siamo di fronte a una recrudescenza dei casi di suicidio. I picchi sono stati raggiunti una quindicina d’anni fa con un’allarmante media di più di un suicidio a settimana. Lo scorso anno, le persone che si tolsero la vita furono 42, quest’anno sono, sinora, 19. Nude cifre, che non permettono di cogliere il dramma di chi non ce la fa più a vivere. E allora basta una fiammata del cuore, una sera di inizio giugno, per turbarci e obbligarci a interrogarci sul perché di un gesto. Non possiamo speculare sul dolore, ma a partire da quel dolore tutti possiamo ritrovare il nostro posto, giornalisti e no. Perché interrogarsi sul perché darsi la morte, implica il chiedersi le ragioni del vivere. E così concludere come Jannacci nella sua canzone Il bonzo, “Des' m’interessa anche a me / della mia libertà / la libertà de brusà / de brusà per pudè campà”.
Pubblicato su RSI.ch  l'11 giugno 2013