lunedì 22 agosto 2016

Il mio bar sport

#Ilmiobarsport 


Il mio Bar sport è sempre lì ma non c’è più. Non ricordo quando mia zia non ce l’ha più fatta ad alzare la serranda tutte le mattine. È avvenuto tutto piano piano, così come si scendono i tornanti da Santa Elisabetta a Caspoggio alla ricerca di un nuovo ritrovo.



Il mio Bar sport si chiamava Bar del pino, ma chi lo frequentava diceva semplicemente che andava “a bere qualcosa” o “dal Livio”, che era poi mio zio. Anche per questo andarci era un po’ come stare in famiglia. Da quella volta che ci entrai con il biglietto da cinquecento lire stretto in pugno per comprare il gelato la scena è sempre stata la stessa. Mio zio gioca a carte a un tavolino sulla sinistra. Come incenso il fumo delle sigarette avvolge i giocatori e il silenzio religioso è rotto solo da improvvise grida di giubilo, imprecazioni o il rumore della lancia vapore della macchina del caffè. Quando mio zio mi vede con slancio paterno mi chiede come va a scuola, mi offre un gelato o qualcosa da bere e mi presenta uno degli avventori che regolarmente è un lontano parente di mia madre. Io sono il nipote che studia “in dentro” e la parola “Svizzera” per tutti rappresenta un eldorado, sofferto o bramato. Dietro al bancone di legno scuro in bellavista ci sono i trofei dei torni di calcio e le bottiglie di amari e vermouth messi in risalto dallo sfondo a specchio. Mi zia si muove con pazienza e con tenero equilibrismo fa quadrare gli slanci di generosità del marito con le esigenze di cassa. Con solerzia serve abitué, villeggianti e forestieri. Fa anche cocktail ma non li chiama cocktail: la “bicicletta” come aperitivo o il “grigioverde” come digestivo. Sulla destra c’è il frigo dei gelati. Sopra con studiata non curanza c’è sempre una copia della Gazzetta o del Giorno. Appoggiato lì, trascorro il mio tempo libero chiacchierando con i miei cugini immerso in quel piccolo laboratorio di umanità. 



Il mio Bar sport è legato a quelle estati di vacanza in Valtellina e andarci ha scandito la mia crescita. Come al bar delle grandi speranze “ci andavo soprattutto quando avevo bisogno di essere ritrovato” e lì, anche quando lo zio non c’era più, io ero a casa. Anche per questo – anche oggi che son diventato uomo e quel bar non c’è più – come il suo arredo il mio ricordo e la mia gratitudine sono immutati.


Articolo inviato a Repubblica in occasione dei 40 anni del libro di Stefano Benni Bar Sport