lunedì 18 agosto 2014

Vivere, amare, morire in Israele


C’è vita in Israele: si scherza, si ama, si balla… la tensione di fondo del conflitto israelo-palestinese vibra sulla tela del romanzo senza ingombrarla: fa parte del tessuto connettivo di un Paese che convive con una ferita aperta. Al centro vi sono una grande storia d’amore e, soprattutto, un’amicizia confrontata alle vicende della vita. Qual è il suo collante? È vero che è possibile essere ancora amici perché “siete di Haifa”? Come si diventa adulti in un rapporto virile e virtuoso? Cosa c’entrano i Mondiali di calcio con il destino? Il Mundial consente di fermarsi, ogni quattro anni, per guardare la vita, fermarsi e capire cos’è cambiato. Un’occasione per esultare e per commuoversi e concludere che "La finale è domani (...) Tutto è ancora possibile".

 


«Scrivere un libro non è facile, ho ripetuto le sue parole mentre serpeggiavo verso il mare, verso il basso, per via Freud. Non è facile, ma ce l'ho fatta. Mi sono mosso. Sono uscito dal mio recinto e sono andato avanti a galoppare per due mesi. Senza che mi finisse l'ossigeno. Certo, l'ho fatto in nome di Ofir. In nome dell'armonia dei bigliettini. Ma se l'ho fatto una volta significa che posso farlo di nuovo. Posso liberarmi dalle mie catene. Dal pessimismo paludoso. Dall'autocontrollo scettico. Posso esprimere dei nuovi desideri per i Mondiali del 2006, e questa volta posso realizzarli. Posso cambiare. Rivelarmi. Trovare uno scopo. Posso amare un'altra, non Yaara. Posso - davanti a questo mare che mi si spalanca davanti in tutto il suo scintillio - posso persino continuare a essere amico dei miei amici in futuro, e non solo congelarli nel tempo attraverso la scrittura.»
(La simmetria dei desideri, Eshkol Nevo, p. 364)



giovedì 31 luglio 2014

La corsa di Samia

Quante volte capita di leggere un libro e pensare "Avrei voluto scriverlo io"? Mi è riaccaduto leggendo il romanzo di Giuseppe Catozzella Non dirmi che hai paura sulla vita dell'atleta somala Samia Omar.


Sarebbe facile definirla una storia di passione e di sport, di sogni e di paure, ma è molto di più. Ci sono l'innocenza e la speranza, l'Africa e l'integralismo islamico, la storia e la cronaca, lo sport e le Olimpiadi, la famiglia e la società sino al dramma dei profughi in fuga nel Mediterraneo. Ma la tragedia non è l'ultima parola. Sono 229 pagine di corsa controvento e contro tutto, 200 metri da leggere per non dimenticare:






lunedì 26 maggio 2014

L'arte di vivere in difesa

In America esiste un proverbio, "Ci sono due stagioni: l'inverno e il baseball"; quest'anno per me è iniziata la seconda. Il libro di Chad Harbach è uno splendido romanzo di formazione e una controversa educazione sentimentale di alcuni studenti dell'Università di Westish nel Wisconsin, sul Lago Michigan. A unirli è la passione per il baseball, che diviene inevitabilmente metafora della vita.



"[Il baseball era considerata] un'arte: un'attività apparentemente inutile praticata da individui con un particolare talento, che sfuggiva a qualsiasi tentativo di definizione eppure a tratti sembrava comunicare qualcosa di vero, o addirittura di cruciale, sulla Condizione Umana.

(...)

Il baseball era un'arte, ma per arrivare all'eccellenza ci si doveva trasformare in una macchina. Non contava quanto magistralmente uno riuscisse a giocare a volte, come si comportasse nella sua giornata migliore, quante giocate spettacolari mettesse a segno. Non si era pittori o scrittori: non si lavorava nell'intimità della propria stanza per poi scartare gli svarioni e mostrare al mondo solo i capolavori. Per un giocatore di baseball, come per ogni macchina, l'essenziale era la capacità di ripetersi. I momenti di ispirazione erano nulla in confronto all'eliminazione dell'errore.

(...)

Il baseball era diverso. Schwartz lo considerava uno sport omerico: non una mischia, ma una serie di singoli duelli. (...) Quale altro sport teneva un conteggio tanto crudele come quello degli errori, segnalandoli su un tabellone?" (cap. 36)




La squadra del college si chiama gli Harpooneers per il presunto legame tra l'università e l'autore di Moby Dick, Herman Melville, che vi avrebbe tenuto una lezione. Nelle ultime pagine del romanzo a mo' di elogio funebre viene letto il ventitreesimo capitolo del libro, La costa a sottovento, sull'eterna scelta se navigare in mare aperto o lungo la costa: 

"...siccome nell'assenza della terra soltanto sta la suprema verità senza rive, infinita come Dio, così meglio è perire in quell'abisso ululante che venire vergognosamente sbattuto a sottovento, anche se in questo fosse la salvezza". 

lunedì 21 aprile 2014

C'era una volta il West. E c'è ancora.


Chissà perché il West continua ad affascinarci. Forse perché immemori della nostra storia, il western ci offre un’epica capace di dare voce e praterie alla ricerca interiore. Un mito in grado di dare volto all’ideale della conquista della frontiera; una frontiera ancora labile, nuova, che spinge sempre più in là. E non importa che qui non ci siano i buoni e i cattivi, i cowboy e i sioux, perché oltre le case e il grande fiume, c’è la grande distesa del West, la natura selvaggia battuta solo dai cacciatori di bisonti prima che arrivi la ferrovia a portare la civiltà. Ci sono le pianure ingiallite e il nevischio dei monti del Colorado, ci sono le mandrie di bisonti, la caccia cruenta e l’odore acre del sangue ad attendere un damerino cresciuto sulla East Coast e il lettore dall’altra parte dell’oceano. Ci sono il rapporto fra l’uomo e la natura, la sua fame di avventura e il suo istinto di sopravvivenza a dare forma al mistero della vita, così diversa eppure così simile alla nostra.

                                   (immagine: Sam Larson) 


«"
Io sono venuto qui...". Si interruppe e lasciò che il suo sguardo spaziasse oltre l'uomo, lontano dal villaggio, al di là di quel lembo di terra che immaginava fosse l'argine del fiume, fino alla distesa verde-giallastra che scoloriva all'orizzonte verso ovest. Nella sua mente cercò di dare una forma a quello che doveva dire a McDonald. Era un sentimento, era un'urgenza che doveva esprimere. Ma sapeva che qualsiasi cosa avesse detto, non sarebbe stato che un altro nome, inadatto a descrivere quella natura selvaggia che andava cercando. Era una forma di libertà e bellezza, di speranza e vigore che gli sembrava alla base di tutte le cose più intime della sua vita, che pure non erano né libere, né belle, né piene di speranza o vigore. Ciò che cercava era l'origine e la salvezza del suo mondo, un mondo che sembrava sempre ritirarsi spaventato dalle sue stesse origini, piuttosto che ricercarle come la prateria lì intorno, che affondava le sue radici fibrose nella nera e fertile umidità della terra, nella natura selvaggia, rinnovandosi proprio in questo modo, anno dopo anno.»


(Butcher's Crossing, John Williams, p. 28) 

martedì 1 aprile 2014

Cosa resterà di questi Anni Ottanta

In libreria incappo nell'ultima fatica editoriale del solito instancabile giornalista televisivo. Foto di copertina e fascetta catturano la mia attenzione. "Il romanzo di una generazione", si spiega, e mi sorprendo nel cogliere che la meglio gioventù descritta è quasi coetanea della mia. Visto che il naufragare nel mare della nostalgia è sempre dolce, specie in Italia, mi lascio cullare tra le pagine sino ad arenarmi tra queste righe. Gli Anni Ottanta. La vulgata li aveva definiti edonistici e reaganiani e certamente non basta un elenco per raccontarli, per raccontare la vita tra i dieci e vent'anni di età, però... Però l'esercizio non è privo di fascino e dunque eccomi aggiungere qualche nome, per raccontare quel decennio iniziato con degli strani scioperi a Danzica e finito con le Notti magiche di Totò Schilaci.


Giovanni Floris, Il confine di Bonetti, Feltrinelli (2014)

Hanno sparato a Reagan; l'attentato al Papa; McEnroe batte Borg; Carlo e Diana; un radiogiornale del mattino e la Legge marziale in Polonia; il generale Dozier e le Brigate Rosse; Gilles Villeneuve; siam tutti figli di Bearzot; il Guerin Sportivo; Beppe Viola; Michel Platini; Francesco Moser e l'Enervit; i Duran Duran; i paninari; Craxi, C.A.F. e il Pentapartito; Stefano Benni; Joe Montana; Trant'anni della nostra storia; il Papa a Lugano; Diego a Napoli; l'Heysel; Bum Bum Becker; Bruce Springsteen; Eros Ramazzotti e Adesso tu; Flavio Cotti e scuole chiuse; Gianni Brera e StradiVialli; Che Guevara; La Pantera; fuori Caccia dentro due socialisti; Parola mia e Doppio slalom; i ragazzi di Vicini; Alberto Tomba; Ben Johnson a Seul; Zurigo; gli U2; Jovanotti e Gimme Five; don Sandro Crippa; Piazza Tienanmen a Pechino e Michale Chang a Parigi; Santiago de Compostela; don Luigi Giussani; la Cecoslovacchia e Vaclav Havel; Cesare Pavese; Il Sabato; la caduta del Muro... [continua]

martedì 18 marzo 2014

Le caprette non ti fanno ciao

Leggendo Heidi alle bambine, la sera prima di andare a letto, può capitare di imbattersi in una pagina così, dove i monti, il Nonno, Peter, Cigna e Orsetta, Francoforte, Clara e la signorina Rottenmeier vengono illuminati, in modo sorprendente ed esplicito, di nuova luce.



" - Se fosse tanta la tristezza che uno si fosse portata qui da Francoforte? Che si potrebbe fare?
- Allora bisogna dirlo al buon Dio. È questo che bisogna fare quando non si sa che altro fare.
- Si, piccola, questa è una buona idea. Ma quando ci viene proprio da Dio, quel che ci rende tristi e poveri, che cosa dire a Lui, allora? Che cosa?
Heidi rimase zitta per un po' a meditare su quanto potesse fare in quel caso difficile. Ma era convinta si potesse ricevere sempre aiuto da Dio. Cercò la risposta nella propria esperienza e la trovò. 
- Bisogna aspettare, allora: aspettare e pensare: adesso il Signore conosce già qualcosa di bello che verrà dopo. Bisogna soltanto aspettare tranquilli, senza scappar via. D'un tratto poi si vedrà tutto chiaro perché il buon Dio aveva preparato per noi qualcosa di buono da un pezzo, solo che noi non lo sapevamo e vedevamo solo quella tremenda tristezza e perciò pensavamo che sarebbe stato sempre così.
- Questa è fede, Heidi. Devi conservarla - disse il dottore, e per un po' rimase a guardare in silenzio gli imponenti monti rocciosi e la vallata inondata di sole."

(Heidi, di Johanna Spyri)

venerdì 28 febbraio 2014

La maggiore età?


"La sensazione era che la vita si era ristretta, diventando adulti. I fatti diminuivano e aumentavano i ragionamenti sui fatti. La sensazione era anche che la vita diventava più costante, scandita dall'abitudine. E le novità erano fuggevoli, oltre che rare. Come se tutto dovesse svolgersi con più precisione, meno sorpresa." (pag. 142)

da Il desiderio di essere come tutti, Francesco Piccolo

mercoledì 29 gennaio 2014

Viaggio nel caveau della moda

Come ti realizzo un servizio sul polo logistico-distributivo di Sant’Antonino

L’attesa è finita. Dopo tre mesi di corteggiamento finalmente incontro quelli della Gucci. Nominativi annunciati via mail, documenti consegnati all'entrata, eccoci entrati nel caveau del lusso di Sant’Antonino. Io, il cameraman e il fonico. Quelli della sicurezza ci accompagnano lungo un dedalo di corridoi e di uffici, tutti asetticamente bianchi. Ci attendono in nove. L’amministratore delegato, il direttore delle finanze, tre addette alla comunicazione e altre persone addette a diversi compiti, tutti in inglese, tutti – immagino  - importanti. Sono tutti in completo scuro, camicia bianca e cravatta. Tranne noi. Ci presentiamo: nella giungla di strette di mano e nella lotteria dei nomi carpisco solo quelli del direttore finanziario e dell’amministratore delegato. È lui a prendere la parola e a snocciolare cifre e slogan. Dal numero di marchi rappresentati dal Gruppo (diciannove) alla cifra d’affari (nove miliardi di euro nel 2012), sino ad arrivare al fatidico “Noi vendiamo immagine, veicoliamo sogni; per questo vogliamo controllare ogni parola e ogni filmato che esce da qui...”. Sembra una premessa, ma il più è fatto. Da quando è arrivato in Svizzera, nel 1996, il gruppo non ha praticamente mai aperto le porte alla stampa e se dopo mesi di avances, di mail e di telefonate siamo qui a parlare, è chiaro che il reportage si farà.

La corte dei miracoli
L’incontro per conoscerci dura un’ora e mezza, ci scambiamo i biglietti da visita e ci diamo appuntamento alla settimana successiva. Entriamo nel ventre del centro logistico. E’ immenso. Vi starebbero sette campi da calcio. Da qui, ogni anno, passeranno 19 milioni di prodotti provenienti dall’Italia, diretti in tutto il mondo. Filmiamo la sinfonia di carrelli, binari, muletti, rulli e cuscinetti. È un tetris automatizzato che non sbaglia mai un colpo: ogni imballaggio "made in Italy" finisce al posto giusto. In fondo non stupisce che tanta tecnologia e precisione abbiano a che fare con il lusso e con la moda. Ogni nostro passo è seguito da uno stuolo di accompagnatori: addetti alla sicurezza, alla produzione, alla comunicazione, ecc.. Nulla sfugge al loro controllo: se lascio il piccolo corteo, vengo gentilmente richiamato “Ha bisogno? Cerca qualcosa?” Dopo un’altra ora e mezza siamo fuori, evasi dal “centro di eccellenza” – per riprendere le parole dell’AD. Appuntamento tra sei giorni a Cadempino.



Scusate l’attesa
Sul piano del Vedeggio, a Cadempino prima e a Bioggio poi, vi sono gli insediamenti storici del Gruppo che sino al 2003 era mono-marca e che ora, passato in mani francesi, si chiama Luxury Goods International. La sede centrale di Cadempino è totalmente anonima, color rame, solo il nome sul citofono ci conferma che non ci siamo sbagliati. Alle segretarie all'ingresso lasciamo i nostri nomi, mostriamo un documento e compiliamo un modulo in cui apprendiamo come comportarci in caso di allarme. E aspettiamo. Dopo un quarto d’ora, le tre addette alla comunicazione ci accolgono calorosamente, ci accompagnano nella sala riunioni e ci informano che l’AD e il direttore finanziario si stanno preparando per l’intervista. Dovrebbe essere una rassicurazione, ma attendiamo ancora mezz'ora. La sala riunione è totalmente bianca. Grande tavolo laccato di bianco, poltrone in pelle bianca. Tutto immacolato. Solo uno schermo al plasma e un vaso di Murano  macchiano questo candore. Ci viene offerto un caffè. Mi viene richiesto il tempo a disposizione, la durata delle dichiarazioni e i temi che intendo affrontare. Dopo un’ora e mezza di attesa, di scuse e di imbarazzi reciproci, iniziamo l’intervista. Prima l’Amministratore delegato, poi il direttore. Ogni parola detta viene trascritta dalle tre assistenti alla comunicazione. Incasso alcuni no comment, ma aldilà di una terminologia a volte ricercata, l’incontro è schietto e sono soddisfatto. Ci salutiamo, concordando la data della messa in onda e la possibilità di vedere il servizio prima della trasmissione.



Finale con psicodramma
Sei minuti e cinquantadue secondi: tanto dura il reportage. Finito il montaggio il venerdì, il lunedì mattina lo mostro al direttore finanziario e a una delle addette alla comunicazione; l’AD – mi viene – detto è stato trattenuto da una conference call con la Cina. Guardano le immagini in silenzio, alle loro spalle colgo smorfie e commenti sottovoce. Sono due i passaggi delicati, riguardano la fiscalità e la manodopera estera. Mi anticipano una perplessità su un passaggio e chiedono che una risposta venga sostituita con una più istituzionale. Lo immaginavo, accetto, correggiamo. Il pomeriggio, dopo un consulto con l’amministratore, mi richiamano e insistono. Pretendono che il passaggio sulla fiscalità non vada in onda; spiego le mie ragioni e inizia un braccio di ferro. Al mattino seguente cedono loro, ma chiedono di ripristinare la prima risposta, quella meno istituzionale. Vabbé, correggiamo e confermo la messa in onda per il giorno successivo. Ma non è finita. La sera mi viene chiesto di rimuovere un’immagine: questione di vita o di morte, anche il responsabile della comunicazione del gruppo disturbato sino in Giappone concorda: quell'immagine del 2004 è fuorviante. “È un’immagine di repertorio, è storia”, ribatto io, ma loro sono irremovibili. Rinnovano la litania di cifre d’affari e di marchi, il danno d’immagine – spiegano – sarebbe "irre-pa-ra-bile". “La situazione è estremamente seria”, “l’importanza vitale”, “le conseguenze pesanti”, mi scrive accorata la portavoce del gruppo. Ne parliamo in redazione e decidiamo di porre fine a questa odissea. Sostituiamo il logo Gucci che avrebbe dovuto comparire dopo ca. 2’ con altre due immagini d’archivio. Dopo quattro mesi dal primo colloquio telefonico stasera il reportage va in onda.

Questo il servizio andato in onda al Quotidiano del 29 gennaio 2014 @RSIonline 

venerdì 10 gennaio 2014

C'è un grande prato verde



“Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l'albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là. Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos'altro che porti poi la nostra impronta. La differenza tra l'uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere sta nel tocco, diceva. Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta una vita.”

(Fahrenheit 451, Ray Bradbury - 1953)
 
 
Sessant’anni dopo
“Mia nonna, poi mio padre curarono questi vasi. La cura del mondo è un'abitudine che si eredita. A dieci anni riempivo l'annaffiatoio per mio padre, e la facilità con la quale lui maneggiava con una sola mano quei dieci litri d'acqua che io gli porgevo con fatica e impaccio mi pareva il traguardo della mia infanzia. Ora che maneggio con la stessa destrezza quei dieci litri, e sono dunque adulto, mi rendo conto che nessuno mi porge l'annaffiatoio. Una catena è spezzata - ne sono l'ultimo anello. Non c'è dubbio. Sono l'ultimo anello.”
(Gli sdraiati, Michele Serra- 2013)